Resistenza nell’Impero
Alessia Biasiolo[1]
Nelle isole erano stanziate la 33esima “Divisione
Acqui” (comandata da Antonio Gandin) con reggimenti di fanteria da montagna e
di artiglieria, la seconda Compagnia del VII Battaglione Carabinieri, reparti
del primo Battaglione finanzieri, mitraglieri, un gruppo contraereo, marinai e
addetti all’ospedale da campo. Alla caduta di Mussolini nel 1943, la 18esima
Legione venne richiamata in Italia.
Il comando era posto ad Atene, sotto l’undicesima
armata, diretta dal generale Carlo Vecchiarelli, e l’Heeresgruppe E tedesco
(comandato da Alexander Löhr). I tedeschi invieranno fanteria da fortezza e
semoventi e si acquartiereranno nel capoluogo di Cefalonia, bene armati
rispetto agli alleati.
Il presidio resse bene, anche con esercitazioni comuni
italo-tedesche.
Con l’8 settembre 1943, tutto ovviamente cambiò. Ai
festeggiamenti italiani per quella che sembrava anche lì l’imminente fine della
guerra, fecero seguito, la sera stessa dell’8 settembre, puntamenti tedeschi di
armi contro una nave italiana all’ancora che, a sua volta, puntò le armi contro
i tedeschi.
Il comandante dell’Undicesima armata Vecchiarelli
inviò a Gandin il seguente messaggio: “Seguito
conclusione armistizio, truppe italiane 11^ armata seguiranno seguente linea
condotta. Se tedeschi non faranno atti di violenza armata, italiani non, dico
non, faranno causa comune con ribelli né con truppe anglo-americane che
sbarcassero, reagiranno con forza a ogni violenza armata, ognuno rimanga al suo
posto”. Quindi, le navi ricevettero l’ordine di prendere il mare per
Brindisi. Gandin ordina poi al battaglione in riserva a Mazarakata e ad alcune
batterie, di spostarsi ad Argostoli, città principale dell’isola, per difendere
il quartier generale, e ai bivi principali soprattutto sulle alture, in modo da
poter presidiare adeguatamente la zona, al contempo controllando i movimenti
tedeschi. Infatti, all’alba una colonna tedesca tentò di passare, ma venne
fermata e mandata indietro, verso la zona del proprio acquartieramento. Gandin
incontrò di prima mattina il comandante tedesco per discutere della situazione
e questi chiese di obbedire agli ordini di Vecchiarelli, di cui era a
conoscenza, riguardo alla non belligeranza nei confronti dei tedeschi.
Tuttavia, verso le dieci, arrivò un ulteriore dispaccio dal comando di Atene,
nel quale veniva chiesto di rimanere nelle posizioni costiere fino al cambio
con i reparti tedeschi che sarebbero arrivati, in ogni caso di non rimanere
oltre le ore 10 del 10 settembre, quindi dell’indomani. Ai reparti tedeschi
bisognava cedere le armi e le munizioni a disposizione. Dalle ore 12 dello
stesso giorno, il 9 settembre, a richiesta dei tedeschi, le armi andavano
cedute loro.
I pareri in proposito furono vari, tra chi voleva
obbedire all’ordine, chi voleva continuare a combattere a fianco dell’alleato
tedesco e chi, invece, voleva resistergli. Secondo alcune fonti sarebbe stato
proposto un referendum in merito, ma molti hanno smentito questa versione,
trattandosi di espressioni di pareri propri che, probabilmente, venivano
discussi tra i vari soldati e i comandanti con Gandin. In questo clima arrivò
la notizia che il presidio di Santa Maura era stato catturato dai tedeschi e
che il colonnello Ottalevi, suo comandante, e due ufficiali erano stati uccisi.
Anche su questo episodio ci sono pareri discordi, dal momento che pare fossero
state consegnate le armi pesanti, a richiesta, ma i soldati si rifiutarono di
consegnare le armi personali, causando la reazione tedesca, che alcuni, invece,
spiegano a seguito di una provocazione. Si cercava, comunque, di non arrivare
allo scontro sia da parte italiana che da parte tedesca. Gli italiani attendevano
ordini più chiari che, come sappiamo, mancarono anche in Italia; i tedeschi si
organizzavano passando ordini di fucilazione in caso di resistenza da parte
degli italiani. I tedeschi quindi presentarono una richiesta di consegna totale
delle armi nella piazza centrale di Argostoli entro le ore 18 del 12 settembre,
davanti alla popolazione che sembrava dalla parte degli italiani, compresa la
resistenza greca che vedeva nel cambiamento la possibilità di avere gli
italiani dalla propria parte, anche se poi questo si rivelò inattuabile e forse
una mossa strategica dei rivoltosi. In ogni caso, veniva vietato agli italiani
di consegnare ufficialmente le armi ai greci.
Era un ultimatum al quale la Divisione “Acqui” si
rifiutò di obbedire, preparandosi a combattere l’ex alleato. Quattro dragamine
presero il largo per l’Italia, mentre Gandin cercava una soluzione ottimale per
il disarmo, evitando il disonore pubblico e cercando di trovare la soluzione
più equa, mentre un messaggio del generale Rossi invitava a considerare le
truppe tedesche come nemiche.
I militari non intendevano cedere le armi e
cominciavano ad organizzarsi contro i tedeschi, soprattutto per l’affondamento
della corazzata “Roma” a loro opera, la cui notizia pare fosse arrivata
sull’isola tramite radio di altro convoglio. Il 13 settembre divenne evidente
che velivoli tedeschi attaccavano navi italiane a Patrasso, pertanto la
tensione era sempre più alta, anche contro i comandanti che non fossero
chiaramente intenzionati a combattere contro l’ex alleato. Gli ordini di
cessare il fuoco a seguito di scontro vennero disattesi da ambo le parti, ma
vista la situazione per loro penalizzante, i tedeschi proposero l’imbarco per
l’Italia per tutti, a patto che venissero consegnate le armi. Gandin emanò un
comunicato in cui rendeva ufficialmente note le trattative in corso per evitare
la umiliante consegna di armi e munizioni. Nel frattempo, la contraerea
italiana mirò all’idrovolante del generale tedesco Lanz e quest’atto, così come
gli spari contro le navi tedesche, venne preso come atto di ostilità. Pare, a
questo punto, che venisse emanato un ordine, sorta di ultimatum, secondo il
quale in caso di resistenza gli italiani sarebbero stati passati per le armi.
Le scaramucce continuarono, con atti di smacco dall’una e dall’altra parte,
mentre ancora i tedeschi si trovavano in inferiorità e le possibilità di
controllarli da parte della Divisione “Acqui” erano alte. Ancora sembra che ci
fossero soltanto richieste di pareri ad ufficiali e truppa che non intendevano
consegnare le armi, argomento centrale della trattativa con i tedeschi i quali,
nel frattempo, continuavano a spostare truppe in posizioni più agevoli al
controllo dell’isola e a farne sbarcare. Gli italiani misero in atto azioni di
sabotaggio soprattutto di strade e ponti, per renderli impraticabili, mentre
gli Alleati non intendevano inviare truppe sull’isola per non creare incidenti
diplomatici con la “alleata” Unione Sovietica che, come abbiamo scritto,
guardava attentamente alla situazione nei Balcani da tempo.
Lo sbarco delle truppe tedesche e la mancanza di
controllo delle alture, abbandonate dai soldati italiani all’inizio delle
operazioni come segno di volontà collaborativa, mise gli italiani in difficoltà;
le postazioni antiaeree non erano sufficientemente attrezzate per contrastare
gli aerei tedeschi. La battaglia sull’isola di Cefalonia iniziò il 15
settembre, con atti di vero e proprio eroismo da parte delle truppe italiane.
Lanz fece lanciare dei volantini per fiaccare la resistenza, accanita,
sull’isola, citando Gandin come partigiano di Badoglio e addossando alla
Divisione “Acqui” la “colpa” della lotta, che determinava la necessaria
reazione tedesca, perché voleva combattere i camerati tedeschi e fascisti. In
modo particolare, si sottolineava il tradimento italiano di Badoglio che aveva
abbandonato alla lotta fatale l’Italia fascista e la Germania
nazionalsocialista. Le armate di Badoglio avevano consegnato le armi senza
spargimento di sangue, si leggeva sempre nel comunicato del generale tedesco,
pertanto la lotta della “Acqui”, evidentemente senza speranza, doveva cessare
al più presto. Il tentativo, che prometteva di lasciare libera la via per il
ritorno in patria, non sortì effetto e l’eroica lotta continuò fino alla resa
del 22 soltanto per mancanza di munizioni, dopo l’ultima convocazione del
consiglio di guerra italiano.
La decisione di esporre la bandiera bianca dal
comando, non comportò il rispetto del nemico da parte tedesca. Hitler stesso
ordinò di passare per le armi gli italiani, considerandoli traditori. Sappiamo,
come scritto in testi precedenti, che il Führer aveva espresso ripetutamente
vero e proprio odio nei confronti del comportamento italiano, a seguito del
mancato rispetto della parola data e dell’atteggiamento ambiguo dei comandi. Lo
stesso ordine avrebbe voluto darlo per l’Italia, se non fosse stato per il
senso di rispetto dell’alleato che, nel frattempo, si stava cercando e che poi
sarebbe stato fatto liberare, portando alla creazione della R.S.I. Già coloro
che erano stati catturati a Cefalonia erano stati fucilati e la stessa sorte
sarebbe toccata a tutti i soldati tedeschi che non pensassero di obbedire
all’ordine imposto di sparare su coloro che erano stati i compagni di poc’anzi.
La detenzione dei prigionieri italiani avvenne nelle carceri di Argostoli e
nella caserma “Mussolini”, con poco cibo e poca acqua.
Il 24 settembre venne ucciso anche Gandin, alla
tristemente famosa Casa Rossa, assieme a circa cinquemila uomini e agli
ufficiali, uccisi a gruppi di 8, e le operazioni di sterminio non si fermarono
fino al 28, non senza aver cercato di cancellare le tracce bruciando corpi o
gettandoli in mare; se per l’operazione venivano usati soldati italiani,
venivano poi uccisi per non lasciare testimoni. I prigionieri superstiti, circa
tremila, furono inviati nei campi di concentramento caricandoli sulle navi in
ottobre, ma alcuni perirono negli affondamenti causati dall’aviazione alleata,
ignara del carico di uomini prigionieri, o dalle mine del Mediterraneo. Questo
fu il caso, ad esempio, della nave “Ardena” diretta al Pireo che saltò in aria
nel porto con 840 italiani nelle stive, dei quali se ne salvarono un centinaio,
o della nave mercantile “Alba”, carica di materiale edile, che affondò portando
con sé altri prigionieri italiani. Pasquale Acito si salvò e venne portato in
ospedale dai tedeschi di un idrovolante, ricoverato per quattro mesi sul letto
n. 537 dove seppe che solo pochi rimasero delle truppe di Cefalonia. Pochi
uomini riuscirono a scappare e a trovare rifugio presso i partigiani greci;
altri rimasero sull’isola per svolgere lavoro coatto. Sull’eccidio cadde un
pesante silenzio per molto tempo; unico responsabile ufficiale fu il generale
Lanz, condannato ad una blanda pena detentiva, mentre furono prosciolti gli
ufficiali italiani accusati di avere fomentato la rivolta contro i tedeschi,
originando così la resistenza sull’isola, causa di migliaia di morti.
Stessa
sorte toccò, purtroppo, alle truppe italiane stanziate a Corfù e Zante. A
Corfù, il 13 settembre, i fanti italiani catturarono il presidio tedesco che
venne poi inviato in Italia scortato dai carabinieri, diventando gli unici
prigionieri di guerra in mano al governo Badoglio; gli italiani vennero
sopraffatti dai tedeschi sbarcati sull’isola il 24 e 25 settembre. I colonnelli
Lusignani e Bettini, uccisi dai tedeschi, vennero insigniti della Medaglia
d’oro al Valor Militare.
Anche
in Albania la situazione divenne pesante per gli italiani dopo la comunicazione
dell’8 settembre: circa 120mila persone, sia militari che civili, erano
bloccate nella zona. Anche lì, i soldati ricevettero l’ordine di consegnare le
armi. La resistenza albanese, già organizzata, passò per le armi molti
italiani, mentre altri si trovarono in forti ristrettezze, patendo anche la
fame; altri gruppi italiani formarono bande partigiane che combattevano contro
i tedeschi, come fu per i battaglioni “Firenze” e “Gramsci”. I tedeschi,
quindi, costituirono delle formazioni miste con i volontari albanesi che
rimanevano dalla parte nazifascista e occuparono il Regno d’Albania fino al
ritiro. Anche in Albania prese avvio una situazione di guerra civile.
[1] Alessia
Biasiolo è Membro Associato al CESVAM, professoressa, docente del Master di 1°
Livello in Storia Militare Contemporanea, Commendatore al Merito della
Repubblica Italiana, Socio dell’Istituto del Nastro Azzurro