1866 QUATTRO BATTAGLIE PER IL VENETO

1866 QUATTRO BATTAGLIE PER IL VENETO
Il volume e acquistabile presso tutte le librerie, oppure si può chiedere alla Casa Editrice (ordini@nuovacultura.it) o all'Istituto del nastro Azzurro (segreteriagenerale@istitutonastroazzurro.org)

1866 Il Combattimento di Londrone

ORDINE MILITARE D'ITALIA

ORDINE MILITARE D'ITALIA
CAVALIERE DI GRAN CROCE

Collana Storia in Laboratorio

Il piano editoriale per il 1917 è pubblicato con post in data 12 novembre 2016

Per i volumi pubblicati accedere al catalogo della Società Editrice Nuova Cultura con il seguente percorso:
www.nuovacultura.it/catalogo/collanescientifiche/storiainlaboratorio

.La collana Storia in Laboratorio 31 dicembre 2014

.La collana Storia in Laboratorio 31 dicembre 2014
Collana Storia in Laboratorio . Scorrendo il blog si trovano le indicazioni riportate sulla quarta di copertina di ogni volume. Ulteriori informazioni e notizie possono essere chieste a: ricerca23@libero.it

Testo Progetto Storia In Laboratorio

Il testo completo del Progetto Storia in Laboratorio è riportato su questo blog alla data del 10 gennaio 2009.

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La Collana Storia in Laboratorio al 31 dicembre 2011

La Collana Storia in Laboratorio al 31 dicembre 2011
Direttore della Collana: Massimo Coltrinari. (massimo.coltrinari@libero.it)
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venerdì 30 giugno 2023

La Grandeur

 


Un caso storico, la Francia del “Re Sole”

Ten. Cpl. Art. Pe. Sergio Benedetto Sabetta



E’ molto più facile ingannare la gente che convincerla che è stata ingannata”

( Mark Twain)



L’ attuale crisi dell’egemonia americana è la crisi ideologica della narrazione neoliberale propria delle élite politiche occidentali, in cui il liberismo è stato intesa quale liberalismo economico, ossia l’assorbimento di qualsiasi aspetto culturale nei soli rapporti economici che avrebbero dovuto garantire un lungo periodo di pace fondato sui soli interessi economici in comune, la fine della storia.

Questa illusione risoltasi in un conflitto economico – strategico, anche sul piano militare, era già avvenuta tra le due guerre mondiali del Novecento, quando un “pluralismo di gruppi di interesse” portò alla corruzione sistemica e alla conseguente crisi delle istituzioni democratiche del 1929.

La crisi attuale ripropone il problema del recupero dei valori etici e culturali che non possono essere sciolti nel solo aspetto economico, il problema è come diceva Keynes, “cosa mettere al suo posto” ( Grewal D. S., L’autunno del neoliberalismo, 51-62 in “Il bluff globale”- Limes n.4/2023).

Quanto viviamo in questi anni con la crisi di una grandeur si verificò storicamente, sebbene naturalmente in termini diversi, anche alla fine del regno di Luigi XIV, il Re Sole, tra il XVII e il XVIII secolo, dopo un periodo di grandiosa espansione, anche commerciale attraverso il mercantilismo di Colbert e la fondazione di colonie.



  1. Dietro alla facciata dello scenario di “Luigi XIV”.



Negli ultimi decenni del ‘600 e nei primi del ‘700, molte brecce si aprono nella fortezza monarchica e cristiana, il cui ultimo e vero difensore, il Bossuet muore nel 1704. Il regime, già provato dai rovesci militari degli ultimi anni del regno e dall’insuccesso dell’autoritarismo religioso, è minato dalla crisi economica e sociale, dall’emancipazione del pensiero, della nascita di una specie di opposizione.

Il bilancio economico, materiale è disastroso. Nell’industria e nel commercio si formano delle fortune, ma la massa lavoratrice non ne trae benefici, perché i salari, per abbassare i costi, sono bassissimi : nel caso più fortunato permettono solo di non morire di fame, tranne in caso di disoccupazione, di carestia o di spinte in alto dei prezzi.

Lo Stato pensa solo al mantenimento dell’ordine e le rare distribuzioni di pane avvengono solo nei casi disperati, per calmare i cittadini affamati (1693). Da tutti i documenti che ci permettono la ricostruzione della storia delle campagne francesi, se evince che la vera padrona è la paura. Una paura latente, continua, generatrice di sussulti pieni di disperazione, davanti all’incertezza del domani, alla fame, alla doppia fiscalità regia e signorile.

Nella città ci sono alcune iniziative di carità, specie religiose: così la Compagnia del Santo Sacramento a Lione difende i salariati dai padroni, ma i magistrati e le forze dell’ordine si affiancano ai padroni. Si può scorgere in tutta la Francia una specie di lotta di classe mascherata: i compagnonnages dei lavoratori tentano degli scioperi, sempre spezzati e spesso nel sangue, contro la tirannia delle corporazioni. I salari variano da 6 a 30 “sols”ma il pane costa 1 “sol” alla libbra e sale a 3 o a 4 nelle epoche di carestia e le feste non sono mai pagate (sono almeno 92 giorni all’anno), i tumulti sociali “emotions”, come venivano chiamati, sono tanti da non essere calcolabili.

Nel 1709 delle bande di popolani di Parigi si spingono sino a Versailles per gridare sotto alle finestre della reggia. Non c’è personaggio che conti del regno che non abbia lasciato ricordi della miseria, della mendicità, della mortalità che affliggevano il regno.

La miseria peggiore regna nelle campagne. Bisogna intendere alla lettera La Bruyère che parla di “animaux farouches” che non mangiano che “racines”, miseria fisiologica e morale insieme. I tumulti contadini sono disperati e innumerevoli, le lagnanze che giungevano al sovrano, agli Intendenti, la stessa corrispondenza ufficiale e i documenti di stato lo confermano.

La Francia popolare di Luigi XIV è un inferno, le sommosse vengono soffocate in modo atroce, Madamne de Sévigné, che del resto non se ne commuove, ce lo racconta; vede gli alberi piegarsi sotto il peso degli impiccati e i soldati del suo amico, duca di Chaulnes, governatore di Bretagna, “ceux ci, mirent l’autre jour un petit enfant à la broche”.

In Bretagna, molti castelli erano stati allora incendiati ed era in corso una guerra sociale, questo nel 1675, negli anni in cui il re è al sommo dei suoi trionfi, verso la fine del regno la rivolta serpeggia e cova dappertutto, nel 1703 c’è una insurrezione nella Linguadoca e nel 1709, si canta:



Le grand-père est un fanfaron,

le fils un imbécile

le petit fils in grand poltron,

Ah! La belle famille!

Que je vous plains, peuple francais

Soumis à cette empire!

Faites ce qu’ont fait les Anglais,

c’est assez vous dire …



L’industria subisce nell’insieme la depressione generale, la fine del regno vede rallentarsi la produzione delle “manifactures”, la cui direzione dopo Colbert è diventata poliziesca. Il grande commercio sfugge al mercantilismo, diventa libero e la sua floridezza contrasta con la miseria generale, il commercio procura lauti guadagni, perché le classi agiate consumano ora lo zucchero, il caffè, il the, il cioccolato e il tabacco, così i grandi commercianti di Lione, di Nantes, di Rouen esigono ed ottengono dal re l’abbandono del colbertismo ormai superato.

Questi successi dell’iniziativa privata si aggiungono alle attività dei corsari che vivono la loro epoca d’oro. L’alleanza spagnola apre le vie del Sud America, e il Cile e il Perù sono ora visitati dalle navi francesi, lentamente ci si converte in economia al liberoscambismo. Si afferma un mercantilismo moderato, già delineatosi alla pace di Rijawijk, nel 1713 si firmano trattati di commercio con tutti gli ex nemici, Boyguilbert è un precursore dei Fisiocratici: la ricchezza dei popoli è nell’agricoltura.

Il bilancio intellettuale

Il bilancio intellettuale è più grave ancora perché incrina le basi stesse del regime. La Francia partecipa a quel momento di trapasso che è “la crisi della coscienza europea”, per ripetere l’importante definizione di Paul Hazard. La Ragione sovrana, il Soggetto, partito dal dubbio cartesiano si alza ora a misurarsi contro il conformismo delle idee tradizionali.

Del resto, all’interno del bel frutto dell’ortodossia religiosa e monarchica, quanti vermi roditori: l’inquietudine, la “ricerca della verità” del Malebranche che cerca di conciliare la Ragione con la Fede, la curiosità della Natura e delle sue leggi. Con il metodo sperimentale appare anche l’idea di progresso e di Relatività: si schiudono nuovi mondi, dagli orizzonti illimitati.

I progressi della scienza e dell’incredulità vanno di pari passo. Luigi XIV e Colbert proteggono e incoraggiano i dotti, gli scienziati, ma seminano anche germi distruttori. Il loro secolo è quello di Galilei, di Newton, di Harvey, di Huigens, di Torricelli, di Cassini, di Pascal e di Leibniz. E’ il secolo in cui il telescopio e il microscopio introducono l’infinito concreto che sconvolge l’idea dell’universo trasmessa dalla Bibbia.

Come conciliare la scienza e la rivelazione? La provvidenza, la genesi, le cronologie della Bibbia con quelle della Cina? E infatti è anche il secolo dei “libertins”, ribelli senza dottrina, ma anche forniti della dottrina del materialismo, discepoli di Gassendi, di Saint Evremond, questo nemico di Pascal.

Sul finire del secolo, il cartesianesimo perseguitato riesce a passare attraverso la sintesi con l’ortodossia che ne fa il Malebranche oppure attraverso i volgarizzatori scientifici come Fontanelle, che tranquillamente dimostra la “pluralità dei mondi”. Bossuet era spaventato dal Trattato teologico-politico di Spinoza, che spazzava via tutte le tradizioni antiche e venerabili e si faceva un dovere di ripensare tutta la tradizione, e dell’Histoire critique di Richard Simon.

La fortezza cattolico-monarchica della Francia di Luigi XIV, si sfasciava sotto i colpi più forti che provenivano dall’Olanda, questo rifugio di tutte le libertà: Bayle poteva distinguere tra “religionnaires” e “ragionaux”, gli spiriti scettici e scientifici.

Sotto Luigi XIV questa eterodossia filosofica non penetra ancora che in una élite colta. ma il successo editoriale del “Dizionario” di Bayle e il gusto diffuso dell’astronomia o per le esperienze scientifiche sono indizi rivelatori. Panteismo o deismo naturalistico penetrano nell’alta società, le censure della Cancelleria o il fulmini della Sorbona erano più uno sprone indiretto che uno spauracchio.

I viaggi o il gusto dell’esotismo dominano il secolo con le molteplici relazioni di viaggi più o meno meravigliosi che rivelano paesi e popoli sconosciuti, non sarà mai abbastanza sufficiente sottolineare quanto abbiano influenzato l’emancipazione degli spiriti.

Vanno ricordati quelli dei gioiellieri Tavernier e Chardin in Persia, quello di Bernier, discepolo di Gassendi, che diventò medico del Gran Mogol, le relazioni dei missionari nel Siam e in Cina, in America del Nord e la copiosa memorialistica delle relazioni di viaggi nel Canada, in Lapponia, in Turchia.

Va assolutamente ricordato l’estroso e strambo barone de La Hontan, ufficiale disertore nel Canada, spirito audace e originale che espone con chiarezza l’assioma della bontà e della virtù dell’uomo primitivo e quindi il corollario della civiltà corruttrice.

Si vede svolgersi inconsciamente da tutti questi scritti la dottrina del relativismo , quella del “clima” cara a Montesquieu, tutti questi racconti vantano la virtù degli abitanti conosciuti, i loro costumi puri e candidi, anche senza la grazia del Cristianesimo. E’ già tutta la teoria del “Buon Selvaggio” o quella del “Santo Cinese” virtuoso senza la rivelazione cristiana. E’ la stessa epoca di Bossuet che ha separato la morale dalla religione, osservando il mondo: lo “urone” di Voltaire, il Persiano di Montesquieu sono nati in questo periodo.

Nel regime di Luigi XIV un’opposizione non poteva essere se non velata e clandestina. Bisogna notare pertanto che, tranne gli scritti vendicatori dei Protestanti rifugiati in Olanda come un Jurieu che pone il diritto dell’insurrezione in nome della sovranità nazionale (ma senza sviluppare i diritti dell’individuo), l’opposizione è semi-ufficiale ed è opera di sudditi leali, ma dallo spirito fiero e indipendente. Persino La Bruyère, tanto conformista, osa porre il problema: “Il gregge è fatto per il pastore, o il pastore per il gregge?”

L’aristocratico prelato Fénelon, il più ardito, non lesina invettiva all’orgoglioso egoismo del monarca, ma le sue critiche non vanno oltre l’ascolto dei suoi amici più stretti, che certamente avranno riferito qualcosa al sovrano. Del resto in politica non va più in là di una monarchia che egli immagina controllata dagli Stati Generali e decentrata (Stati provinciali), dove l’autentica nobiltà feudale (noblesse de l’Epée) avrebbe finalmente trionfato sull’invisa borghesia diventata nobile (la Robe). Feudale è anche Saint Simon, amico del duca di Orléans.

La novità di costoro consiste nel sentimento umanitario, liberale e pacifista con un certo ideale di “giustizia” che è molto chiaro nel Vauban.

In tutti i campi soffia un vento di libertà, contro tutte le “règles” e l’opinione pubblica, ormai stanca, si attende “novità”, una certa libertà licenziosa circola nel circolo dei Vendome, e a corte, dal duca d’Orléans.

Libertà gaia regna nel circolo della duchessa del Maine; libertà dello spirito da Madame de Lambert che vuole “rendere alla Ragione tutti i suoi diritti”; libertà d’immaginazione, di fantasia aggraziata e gentile nei “Contes” di Perrault (“La bella addormentata nel bosco”), nelle “Mille e una notte” tradotte da Galland, nei romanzi di avventure, nei romanzi picareschi di Le Sage, nei poemi galanti o nella pittura ardente e sognatrice del giovane Watteau.

Alla morte del re, Montesquieu può dire che “il regno del defunto re è stato così lungo che la fine ne aveva fatto dimenticare l’inizio”.

martedì 20 giugno 2023

8 Volumi sulla Guerra di Liberazione

 



Dizionario Minimo della Guerra di Liberazione

Osvaldo Biribicchi

 

Il Dizionario minimo della Guerra di Liberazione, progetto sostenuto dal Ministro della Difesa, fortemente voluto dal Presidente dell’Istituto del Nastro Azzurro fra Combattenti decorati al Valor Militare del 1927, Generale Carlo Maria Magnani, si inserisce nel quadro delle molteplici attività culturali ed editoriali portate avanti dal direttore del Centro Studi sul Valor Militare Generale Massimo Coltrinari, è rivolto agli studenti delle Scuole Superiori di Secondo Grado, al fine di fornire agli studenti spunti di riflessione e documenti per approfondire gli avvenimenti che vanno dalla crisi armistiziale del 1943 alla Liberazione, il 25 aprile 1945, e quindi alla conclusone della guerra. Preso atto che non è possibile parlare di Guerra di Liberazione senza una conoscenza essenziale degli eventi principali che hanno preceduto e seguito l’annuncio dell’Armistizio dell’8 settembre, nel porre mano a questo lavoro ci siamo riproposti, almeno nelle intenzioni, di non fare solo una raccolta asettica di dati ma stimolare riflessioni critiche.                                                                                      La struttura editoriale dell’opera è costituita, per ogni anno preso in esame, da un  compendio e da un glossario; infine è stato inserito un volume dedicato ai Percorsi di ricerca. Lo studio è stato articolato in sei Fronti: del Sud; del Nord; dell’Internamento; della Resistenza all’Estero; della Prigionia ed, infine, del Fronte nemico al fine di fornire un quadro sommario di ciò che avvenne all’indomani dell’Armistizio. A partire dall’8 settembre 1943 l’Italia si divide in due: quella del Sud, liberata dagli Alleati con gli sbarchi in Sicilia, a Salerno  ed Anzio, e quella del Nord in cui si insediò la Repubblica Sociale Italiana decisa a continuare la guerra, ormai persa, al fianco dei tedeschi. In realtà, tra l’Italia e gli Alleati furono firmati due armistizi: il primo, detto armistizio corto, contenente solo clausole militari, fu firmato segretamente a Cassibile in provincia di Siracusa il 3 settembre 1943 ed annunciato cinque giorni dopo prima dal Generale Eisenhower e, poche ore dopo, da Badoglio. Il secondo, detto armistizio lungo o anche armistizio di Malta, fu firmato il 29 settembre e precisava gli obblighi della resa senza condizioni già contenuti genericamente nell’armistizio corto. La semplice conoscenza di questi elementi stimola riflessioni profonde su quei cinque giorni tra il 3 e l’8 settembre in cui i soldati italiani continuarono a combattere e morire al fianco dei tedeschi contro gli angloamericani e la mattina del 9 settembre si ritrovarono all’improvviso alleati con coloro che sino al giorno prima erano stati nemici. Il problema nasce dal fatto che il governo militare Badoglio, in sostanza, aveva siglato l’armistizio con gli Alleati senza aver prima ricusato il Patto d’Acciaio siglato il 22 maggio 1939 tra Italia e Germania. Le forze armate tedesche presenti sul territorio italiano divennero pertanto automaticamente forze di occupazione. Dopo l’8 settembre tutta la popolazione italiana senza distinzione di credo politico e condizione sociale pagò un prezzo altissimo. Nei territori della Repubblica Sociale, in particolare, iniziò una durissima guerra partigiana contro i nazi-fascisti che a loro volta reagirono con feroci rappresaglie nei confronti dei civili i quali, come se non bastasse, subivano anche i violenti bombardamenti terroristici aerei diurni e notturni degli Alleati che avanzando verso Nord colpivano sia obiettivi militari che inevitabilmente città e paesi. Nel Dizionario si prende in esame anche l’arco di tempo (quarantacinque giorni) compreso tra la seduta del Gran Consiglio del Fascismo tenutasi tra il 24 ed il 25 luglio 1943, nel corso della quale Mussolini fu esautorato, e la proclamazione dell’armistizio. Un periodo confuso: Vittorio Emanuele III nel pomeriggio del 25 luglio fece arrestare Mussolini, assunse il comando delle Forze Armate ed affidò il governo al Maresciallo Badoglio. In quel momento, con 31 divisioni dell’Esercito fuori dal territorio nazionale, il governo avviò con fare incerto contatti segreti con gli Alleati per uscire dalla guerra pur continuando formalmente a professare la propria lealtà all’alleato germanico. L’8 settembre fu dunque una data spartiacque tra un periodo ormai concluso ed un dopo, ovvero l’inizio della Guerra di Liberazione chiamata dagli Alleati Campagna d’Italia. Una guerra combattuta da tutto il popolo italiano su cinque Fronti (e qui mi ricollego alla struttura del dizionario):                                                                                                    Primo Fronte, dell’Italia libera, a Sud, liberata dagli Alleati i quali consentirono al Governo del Re d’Italia, riconosciuto sia dagli Alleati che dall’Unione Sovietica, di esercitare seppure con pesanti limitazioni le proprie prerogative. Nell’Italia libera furono gettate le basi delle nuove Forze Armate. L’Esercito contribuì alla Guerra di Liberazione inizialmente con il I Raggruppamento Motorizzato che combatté a Monte Lungo (8 dicembre 1943) successivamente con il Corpo Italiano di Liberazione  (C.I.L.) che si distinse a Filottrano, nelle Marche (8 luglio 1944) ed infine con i Gruppi di Combattimento che parteciparono all’offensiva finale contribuendo a liberare gran parte delle città del nord Italia.                                                                                      La Regia Aeronautica riordinò le proprie unità, ricostruì le basi nei territori liberi e recuperò il materiale abbandonato in Africa settentrionale. Dopo la dichiarazione di guerra alla Germania costituì l’Unità Aerea, alle dipendenze del Comando delle Forze Aeree Alleate, responsabile dell’impiego, dell’addestramento, della disciplina e del funzionamento dei servizi amministrativi e tecnici di tre Raggruppamenti di specialità: Caccia, Bombardamento – Trasporti e Idrovolanti. Il comando Alleato la impiegò nei Balcani, inserendola negli organici della Balkan Air Force. L’Unità Aerea operò, senza soluzione di continuità, fino al mese di maggio del 1945.                                                                                                                                                                 La Marina, da parte sua, affrontò e gestì una situazione difficilissima. Solo in Puglia, ove intanto aveva insediato il proprio Comando, poche unità all’ancora nei porti di Taranto e Brindisi rimasero sotto il controllo italiano. Il 14 settembre 1943 mentre due torpediniere salpavano da Brindisi per portare aiuti a Corfù arrivavano provenienti da Venezia e dall’Istria gli allievi della Regia Accademia Navale. Pochi giorni dopo, il 23 settembre 1943, fu siglato l’Accordo di Cooperazione Navale tra il Comandante in Capo delle flotte alleate nel Mediterraneo, Ammiraglio Cunningham, ed il Capo di Stato Maggiore della Marina. Il documento siglato prevedeva, tra l’altro, che tutte le unità navali potessero rientrare nelle basi nazionali, ad eccezione delle corazzate.                                                                                                                                                   Il contributo alla Guerra di Liberazione da parte delle Forze Armate dell’Italia libera fu dato anche dagli oltre 200 mila uomini impiegati nelle Divisioni Ausiliarie per attività di carattere logistico, spesso a ridosso della prima linea, non meno importanti ed indispensabili di quelle combattenti;                                                  Secondo Fronte, dell’Italia occupata dai tedeschi. Qui il fronte fu clandestino e la lotta politica condotta dal Corpo Volontari della Libertà, composto dai rappresentanti di tutti i partiti antifascisti, riuniti nel Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) costituito a Roma il 9 settembre 1943. Successivamente furono formati CLN  locali nelle varie città del nord Italia per dare impulso e direzione politica alla Resistenza. Fu il grande movimento partigiano del nord Italia all’interno della Repubblica Sociale Italiana;                                          Terzo Fronte, della Resistenza dei militari italiani all’estero, un fronte questo non conosciuto, dimenticato. È la lotta contro i tedeschi dei soldati italiani inseritesi nelle formazioni partigiane locali in Jugoslavia, Grecia ed Albania;                                                                                                                                                                   Quarto Fronte, della Resistenza degli Internati Militari Italiani, oltre 600 mila uomini che pur andando incontro consapevolmente a privazioni ed umiliazioni si rifiutarono decisamente di aderire alla Repubblica Sociale Italiana;                                                                                                                                                         Quinto Fronte, della Prigionia Militare Italiana. I prigionieri italiani in mano alleata all’annuncio dell’armistizio dovettero, come tutti, fare delle scelte. La stragrande maggioranza decise di cooperare con gli ex-nemici; quelli in mano agli angloamericani furono organizzati in Italian Service Units (ISU), compagnie di 150 uomini addetti a particolari lavori di carattere logistico. Negli Stati Uniti ed in Gran Bretagna furono impiegati negli arsenali o nelle basi militari; in Australia, invece, furono impiegati per costruire strade, linee ferroviarie oppure in grandi fattorie, comunque in lavori non strettamente legati ad attività belliche.           Nel Dizionario, inoltre, non si dimentica di evidenziare il ruolo particolare avuto dalla Puglia, Regione d’Italia che per sei mesi, dal 10 settembre 1943 data di arrivo del Re all’11 febbraio 1944 data in cui la corte si trasferì a Salerno in attesa della liberazione di Roma avvenuta il 4 giugno 1944 (ben 134 giorni dopo lo sbarco di Anzio), costituì il fulcro del Regno del Sud con Brindisi come capitale. È da Brindisi infatti, che il governo Badoglio, il 13 ottobre 1943, trentacinque giorni dopo l’annuncio dell’Armistizio dichiara guerra alla Germania. A partire da questa data, l’Italia assume la posizione di “cobelligerante” ovvero non è più considerata nemica degli angloamericani ma neanche alleata nel senso stretto del termine.                                Uno spazio non secondario, infine, viene riservato al ruolo delle donne negli avvenimenti bellici dal settembre 1943 all’aprile 1945, a quelle donne che hanno partecipato attivamente alla Guerra di Liberazione ricoprendo vari ruoli sia logistici che combattenti ed alle donne della Repubblica Sociale Italiana impiegate nel Servizio Ausiliario Femminile con compiti logistici.                                                                                             Possiamo affermare, quindi, che ognuno partecipò alla Guerra di Liberazione nei modi e nelle forme più disparati. Se non si comprendesse questo  sarebbe difficile parlare di un argomento così complesso e delicato. Per questo motivo ci siamo avviati alla stesura del Dizionario con l’intento di dare un supporto didattico allo studio ed alla conoscenza di un periodo storico complesso ma fondamentale per comprendere l’origine delle nostre odierne Istituzioni ed in ultima analisi della nostra Democrazia. 

sabato 10 giugno 2023

Maria Luisa Suprani Querzoli

 

Sulle vere origini degli Arditi

 

La presente ricostruzione delle origini del fenomeno degli Arditi ha tratto stimolo da una notizia di cronaca piuttosto recente: la ricorrenza dell’istituzione dei Riparti d’Assalto[1], quest’anno, è stata funestata da un atto vandalico che, se da un lato ha destato scalpore, dall’altro ha indirettamente contribuito ad accrescere la confusione in merito all’esatta identità di questi Combattenti. La discussione che è sorta intorno a tali deplorevoli gesti, al di là dello sdegno, non è infatti andata oltre nozioni storiche di superficie, senza indagare più a fondo circa sia le ragioni sottese a tale bravata, sia – soprattutto - la vera origine dei Riparti.

Un breve riepilogo su quanto accaduto a fine luglio 2022: la targa commemorativa dell’istituzione[2] posta a Sdricca di Manzano è stata frantumata e i muri del Monumento della Federazione Nazionale Arditi d’Italia, sito a Capriva, sono stati imbrattati da scritte in vernice rossa. Tali manifestazioni di dissenso ideologico – peraltro unanimemente condannate per la manifesta impropria modalità di espressione - hanno rappresentato il punto culminante di un crescendo di tensioni venutosi a creare (per l’ambiguità che aleggiava intorno a scelte inerenti alla celebrazione della ricorrenza) fra alcune forze politiche locali e gli organizzatori della commemorazione.

Risulta curiosa (e, ai fini di contribuire a chiarire le motivazioni circa quanto accaduto, forsanche indicativa) la coincidenza fra data di istituzione dei Riparti d’Assalto e genetliaco di Benito Mussolini: il giorno è lo stesso, 29 luglio.

Appare palese che si tratta di pura casualità (il capo del Fascismo nacque nel 1883, trentaquattro anni prima che i Riparti venissero istituiti). A volte, però, si tende a sottostimare che il regime fece propria buona parte della tradizione più gloriosa della guerra senza andare troppo per il sottile[3]: durante l’intero ventennio le celebrazioni della ricorrenza dell’istituzione degli Arditi si trovarono quindi a coincidere con il compleanno del Duce, data significativa in un contesto teso ad enfatizzare il culto della persona del Capo[4].

Forse le recenti tensioni ideologiche sono state amplificate, seppur  inconsapevolmente, dall’eco dei fasti legati a tale data polisemantica (sedimentata nella memoria collettiva): questo intreccio di concause, probabilmente, ha sospinto pochi  sconsiderati a far d’ogni erba un fascio, increspando per un certo tempo la bonaccia della cronaca locale tipica del periodo estivo.

Come anticipato, la ragione storica alla base di tale reazione incivile a tensioni da risolversi in altra sede e con altri mezzi è da ricercarsi proprio nel Fascismo che, per fornire di fondamenta salde la propria repentina nonché violenta affermazione, fece proprio – mitizzandolo[5] - il patrimonio di eroismo della Grande Guerra, Arditi in primis[6].

Del valore militare della Grande Guerra giunto ai giorni nostri serba memoria concreta soprattutto la toponomastica: circa le figure dei Comandanti della vittoria (e quindi fuori discussione: se la figura del generale Cadorna – in una prospettiva rivelatasi coriacea di fronte all’analisi approfondita della verità storica - continua ad essere capro espiatorio delle durezze della guerra[7], quella del generale Capello è addirittura colpita da una damnatio memoriae capace di rimuoverne ogni traccia e non solo dalla toponomastica) si può affermare che furono le stesse enfatizzate, seppure con fini strumentali tutt’altro che storici, dal Fascismo.

Tale eredità gravosa ha tacitamente contribuito a circondare il ricordo (e, di conserva, le ricorrenze) di figure e di fatti d’arme relativi alla Prima guerra mondiale di un manto di retorica disfunzionale alla costruzione di una memoria storica condivisa, capace di influire indirettamente sulla percezione del presente[8].

Gli Arditi appartengono al patrimonio morale e tecnico della Grande Guerra e a tale contesto richiedono di essere ricondotti, liberi da strumentalizzazioni politiche le quali, nel tempo, si sono inspessite in misura tale da costituire addirittura un filtro capace di alterare la verità dei fatti, contribuendo ad una percezione fondamentalmente distorta della realtà.

Una volta riconosciuta l’azione di siffatto filtro, sarà interessante ripercorrere l’iter compiuto dagli Arditi per poterlo restituire (seppure in modo essenziale) nella sua complessità, distinguendone il compito prettamente militare dall’aura non sempre adamantina da cui la fama di tali Combattenti è tuttora circondata.

Lo stesso termine ‘ardito’[9] rimanda in primis al coraggio, ma anche all’assetto spregiudicato di chi arrischia troppo: il denominatore comune che lega le due accezioni è riconducibile al concetto di ‘sprezzo del pericolo’, dote encomiabile in ambito bellico (e pertanto ricorrente fra le motivazioni di molte Medaglie al Valore).

Nel margine di coesistenza fra i concetti di ‘coraggio’ e ‘azzardo’ si colloca l’origine degli Arditi: le singole figure rispecchiarono, in diversa misura, entrambi gli aspetti, dando luogo ad aree dove si può tuttora annidare legittimamente un sospetto di ambiguità. Nell’ambito delle discipline psicologiche, è noto che una percentuale - seppur assai esigua - di persone risulta incapace della ben minima empatia di fronte alla vista del dolore altrui. Nemmeno arretra di fronte alla possibilità di infliggere dolore, in assenza di percezione delle conseguenze gravi del proprio gesto. Non è escluso che tale profilo (considerato socialmente pericoloso in tempo di pace), nel contesto bellico contrassegnato da esigenze urgenti, sia confluito facilmente nella categoria degli ardimentosi: «guerra, guerra/ all’austriaco invasore/ sono Ardito, Ardito e fiero/ con la bomba e col pugnale guai per l’orrido straniero/ che mi attende e che mi assal!»[10].

Nella eterogenea composizione delle Fiamme Nere[11] è compresente anche il versante diametralmente opposto, espressione di chi decise di dedicarsi integralmente al bene della Patria, incanalando principalmente nel coraggio e nel sacrificio di sé l’ardore necessario a sì temibili imprese: «Se vuoi trovar l’Arcangelo da fante travestito,/ ricercalo a Manzano e troverai l’ardito!»[12]. Fra gli Arditi figurarono infatti personalità di uno spessore morale non comune: valga d’esempio la figura del pluridecorato  Umberto Visetti il cui spericolato percorso esistenziale e militare attraversa le due guerre per poi confluire nella sfera religiosa, dove, abbandonato il secolo, diventerà Frate (missionario) Agostino di Cristo Re. Anche Antonio Mugetti (Padre Angelico) può vantare diverse Medaglie al Valore, combattendo proprio nella Brigata Lambro a cui – come si vedrà - molto dovette l’istituzione vera e propria dei Riparti d’Assalto[13].

Una volta considerate le tendenze contrassegnate da polarità opposta, si può tornare ad analizzare la psicologia dell’Ardito sotto una luce meno estrema e lo si farà partendo dalla testimonianza del generale bersagliere Eugenio De Rossi in una rara descrizione dell’alterazione a cui è soggetta la psiche del Combattente valoroso in momenti di estrema tensione:

 

Domande angosciose che contribuivano a farmi un quadro assai fosco della situazione [il riferimento è all’attacco al Merzly nel giugno 1915]. Ma a buon punto il mio naturale [corsivo non presente nel testo] prese il sopravvento. I molti se, i molti ma, non mancano mai per sconsigliare un attacco a chi non ha la ferma volontà di aggredire, e scacciai quelle nebbie. I preparativi per l’azione furono fatti dall’altro mio io, che aveva sostituito subitamente il suo sosia tentennante. Credo non essere il solo che abbia notato lo sdoppiamento della propria individualità in circostanze più o meno gravi della vita. Non sono spiritista, non ho mai preso parte a sedute spiritiche, sono piuttosto incline a credere che il fenomeno dello sdoppiamento psichico spontaneo appartenga alla categoria degli ipnotici e, sempre, se dico male i medici mi perdonino; il fatto è che nella mia esistenza lo sdoppiamento si avverò. Come già dissi, quando generalmente il mio spirito era esaltato oltre l’ordinario, l’incosciente che sonnecchia in noi si svegliava ed appariva accanto al normale.[14]

 

La particolareggiata testimonianza di De Rossi è mirata a confutare sul nascere le obiezioni generiche circa l’impiego determinante (o, addirittura, risolutivo) di sostanze stupefacenti in contesti bellici. Esiste una letteratura specifica intorno all’argomento ma, nonostante ciò, è riduttivo ed antiscientifico escludere la naturalità originaria dell’assetto eroico.

Anche nella vita civile si possono compiere atti straordinari in situazioni di particolare eccezionalità ma ciò che per un civile rappresenta appunto un’eccezione, per il Soldato costituisce il dovere: «[l]’onor militare, derivante dalla tradizione e dell’elevatezza del sentimento nazionale, richiede come base l’onor civile, ma di questo è una sublimazione; ciò che nella morale civile può esser considerato come virtù rara ed eroismo, nella morale militare non rappresenta che il semplice compimento di un dovere»[15], sostiene il generale Capello.

Il generale De Rossi, di fronte a pericolose ed incontrollate manifestazioni di esaltazione, ricorda che «“l’eroismo non è un mestiere che si eserciti 24 ore al giorno e 365 giorni dell’anno. Gli eroi, in realtà, hanno solo dei lampi di eroismo che esplodono all’improvviso, precipitandoli irresistibilmente in avventure inattese. L’eroe, a considerarlo bene, è quasi sempre tale suo malgrado!”»[16].

Gli Arditi, per impiegare l’espressione di De Rossi, si trovarono invece ad indossare volontariamente l’abito mentale dell’eroismo pressoché 24 ore al giorno, anche se non 365 giorni all’anno: tali sforzi al limite della resistenza umana necessitavano infatti di adeguati tempi di recupero.

Questo assetto richiese, al d là della prestanza fisica di partenza, condizioni di vita adeguate allo scopo, per certi aspetti (inerenti sia al lavoro, sia al riposo) incommensurabili con la sfibrante routine propria della trincea.

Gli Arditi, anche a causa di tali privilegi (già la sottrazione dei migliori elementi finalizzata alla costituzione dei Riparti d’Assalto non aveva suscitao acceso entusiasmo fra i Comandanti), non riscossero soverchie simpatie[17].

In precedenza, però, quando i Soldati arditi non potevano ancora formalmente fregiarsi dell’appellativo, la loro presenza di supporto risultava particolarmente gradita nelle prime linee: «erano tanto contenti i compagni nostri, perché andavamo da una linea all’altra ed erano contenti che la Brigata Sassari fosse presente perché la Brigata Sassari dava un senso di tranquillità e sicurezza», ricordava il generale Musinu, Comandante della leggendaria compagine[18]. I Valorosi, infatti, erano impiegati inizialmente in compiti di particolare impegno capaci di agevolare poi l’azione delle truppe (accrescendone così l’efficacia), con un conseguente risparmio di vite umane.

Il criterio che informò la selezione degli Arditi non poteva prescindere dalla piena efficienza fisica, esaltata da doti atletiche notevoli. Tali qualità, oltre a fornire un’offerta efficace alla domanda che le istanze del momento decretavano urgente, trovavano una cassa di risonanza amplissima sia nelle fondamenta del Pensiero futurista, sia nella cultura sportiva che, repentinamente, venne declinata ad esigenze belliche[19], a partire dalla campagna di interventismo sostenuta da «La Gazzetta dello Sport».

Al Lettore di oggi appare lapalissiano che le fatiche di guerra possano essere, seppur solo in parte, alleggerite da una forma fisica in piena efficienza. Un secolo fa, questo concetto non appariva affatto cosa scontata:

 

Alla base d’ogni nostra attività (VI Battaglia dell’Isonzo) avevamo messo il più virile e il più intenso sviluppo della educazione fisica, sotto forma di violenti sports di guerra. Finalmente si era capito (e ci voleva la guerra per capirlo) che la condizione prima per essere un buon soldato, consiste nella robusta e vigorosa preparazione del corpo; perché la guerra è, soprattutto, una enorme fatica, e, sul campo, si combatte e si comanda bene, soltanto quando si è giocondamente sani e quando si riesce a dominare i propri nervi. Quanta strada, anche qui, dal tempo dei nostri primi lontani anni di carriera, quando, nei reggimenti, l’educazione fisica era considerata come qualche cosa di accessorio al confronto della pura istruzione  tecnico – militare, e questa, anziché essere, sopra tutto, un armonico e lieto addestramento del corpo e dell’anima, intristiva nei cortili delle caserme o sulle ben spianate piazze d’armi in un meccanismo secco e monotono, che non interessava seriamente nessuno![20]

 

Alla dimostrazione dell’efficacia delle azioni compiute da coloro che possono essere considerati veri e propri pionieri dei Riparti d’Assalto seguì la codificazione: la veste normativa che diede forma al fenomeno spontaneo degli Arditi costituisce la fase conclusiva di processo mirato ad integrare tale efficace contributo attraverso canoni definiti che ne permettano l’assimilazione sul piano organizzativo e, di conserva, un impiego pienamente strutturato.

Dopo aver considerato la presenza tra le file dell’Esercito avversario di Sturmtruppen di matrice germanica (Circolare n. 6230 del Comando Supremo del 14 marzo 1917) i Riparti d’Assalto vengono istituiti con la Circolare n. 111660 del 26 giugno 1917 a firma del Sottocapo di Stato Maggiore, generale Porro, diretta ai Comandi delle Armate 1ª, 2ª, 3ª, 4ª e 6ª. «La 2ª Armata del generale Capello si dimostra la più sollecita a mettere in pratica le richieste del Comando Supremo a causa dei risultati positivi ottenuti in azione dai plotoni speciali della brigata Lambro e della 48ª Divisione».

Si deve sempre allo stesso Francesco Saverio Grazioli, alla testa di tale valorosa Brigata (ai tempi della conquista di Gorizia, dipendente dal VI Corpo d’Armata comandato dal generale Capello), la descrizione della nascita di fatto degli Arditi ad un anno di distanza dalla loro istituzione ufficiale:

 

Questi nuclei muniti di armi automatiche leggerissime avrebbero dovuto trascinare la intera massa, la quale, come tutte le troppo numerose collettività, è per sé stessa pigra ed ha bisogno di gente spregiudicata e di temperamento acceso che, in ogni affare grosso, dia il via e l’esempio della decisione.

Fu per dar corpo a questa, davvero non peregrina ricetta di psicologia collettiva [di cui il generale Capello rappresenta un pioniere a tutti gli effetti], che, formai, fin da allora, scegliendo sul complesso della brigata, alcuni plotoncini speciali, armati di pistola mitragliatrice (sole armi leggere di cui allora potevamo disporre) e li feci addestrare dai più squilibrati e rompicollo giovani ufficiali che trovai nel reggimento, esaltando fino all’estremo le qualità di ardimento e sprezzo del pericolo, di cui quei ragazzi mostravano di essere dotati.

Tutto ciò avveniva nel giugno del 1916 e perciò assai prima che spuntassero quei plotoni arditi che generarono poi le truppe d’assalto di storica memoria, e a cui tanto si dovette nelle giornate gloriose di Vittorio Veneto.[21]

 

Principalmente, la vittoria di Gorizia si dovette alla preparazione alacre e puntuale posta in essere dal Comando del VI Corpo d’Armata a cui fu propedeutica – ed essenziale – un’azione di sgretolamento della spessa coltre di sfiducia e di scetticismo che affliggeva l’intera compagine, dal Fante agli Alti Comandi[22].

L’istituzione formale degli Arditi fu, nella sostanza, più legata alla dimostrazione palese di efficacia della preparazione propedeutica alla conquista di Gorizia che all’emulazione pedissequa delle Sturmtruppen.

L’allenamento dello spirito offensivo che diede i suoi frutti nell’agosto del 1916, a ben vedere, risale a tempi di molto precedenti:

 

Calcinato, 5 luglio 1915

 

Il generale Capello, che comanda la nostra Divisione (25ª: Brigata Macerata e Brigata Sassari) ha evidentemente una viva simpatia per Monte Nuvolo, piccola altura a sud di Lonato. Ne ha fatto un innocuo ma permanente teatro di finta guerra: i bianco – azzurri della Macerata contro i bianco – rossi della Sassari.[23]

 

La damnatio memorie che ha colpito il generale Capello si è ripercossa sulla chiarezza circa le vere origini degli Arditi, diventati (e, soprattutto, rimasti) nell’immaginario collettivo espressione del Fascismo: in tale protratta distorsione della verità storica è da cercarsi il germe che sollecita e conduce ad azioni sconsiderate come quella menzionata agli inizi.

Poche righe rispetto alla vastità del tema: vuole essere questo solo un contributo mirato a sgretolare la cortina di luoghi comuni stratificatisi nel tempo, incuranti della veridicità delle proprie fondamenta, che rappresentano tuttora un retaggio sottotraccia della retorica fascista: contributo vieppiù necessario ad una cultura nazionale propensa ancora oggi a vedere nella data fatidica del 24 ottobre l’immagine della sconfitta di Caporetto piuttosto che la data d’inizio della Battaglia di Vittorio Veneto, decisiva ai fini della conclusione della guerra, non solo italiana.

 

 

dott.ssa Maria Luisa Suprani Querzoli



[1] Sdricca di Manzano, 29 luglio 1917.

[2] La targa, posta a Sdricca, risale al 1938 (cfr. T. Dissegna, Il Comune di Manzano ritira il patrocinio: gli Arditi rimangono alla Sdricca, in www.messaggeroveneto.geolocal.it, 31 luglio 2022).

[3] L’espressione, riferita alla scarsa capacità di discernimento propria della gente, è dello stesso Mussolini (cfr. intervista di Enzo Saini ad Ardengo Soffici in «Settimo Giorno», 26 marzo 1959, in  D. Ascolano, Luigi Capello. Biografia militare e politica, Ravenna: Longo Editore, 1999, p. 225). Circa l’assimilazione politico – culturale operata dal Fascismo di alcune glorie celeberrime della guerra, spicca la figura del maggiore Baracca: si dimenticarono le simpatie repubblicane dell’Asso, palesi al punto da determinare – si disse - l’assenza del Re ai suoi solenni funerali (cfr. F. Bandini, Il Piave mormorava. Milano: Longanesi, 1968, p.210). Sia il monumento di Domenico Rambelli dedicato all’eroico Maggiore (inaugurato nel 1936), sia la raccolta rivisitata delle sue lettere (Memorie di guerra aerea, Roma: Ardita, 1933) tradiscono la finalità di quella che, a tutti gli effetti, fu un’operazione culturale con fini di propaganda piuttosto palesi.

[4] Anche l’astrologia concorse al mito: Mussolini era del Leone.

[5] Che il Fascismo fosse interessato al mito e non alla storia divenne esplicito fin dal 1923, quando di fronte allo studio esaustivo su Caporetto ad opera del colonnello Adriano Alberti (Direttore dell’Ufficio Storico di Stato Maggiore) vennero opposte nette resistenze. La ricostruzione storica dell’Alberti ha visto le stampe solo nel 2004.

[6] Risulta esemplare la metamorfosi subita dalla canzone Giovinezza, nata come canto goliardico nel 1909, eletta in seguito a inno degli Arditi e finita – letteralmente - sotto l’ala dell’aquila littoria. Oggi, tale canzone è bandita e nemmeno risulta riproponibile nella sua versione originaria, tanto risulta ancora forte l’eco di ricordi cupi di cui si è resa portatrice. Altro segno distintivo degli Arditi approdato poi al Fascismo è il fez, per non accennare al motto A noi!, inizialmente coniato dal maggiore Freguglia (Com’è nato il motto “A noi!”, in www.arditigrandeguerra.it).

[7] «Sono i nemici della guerra i quali vedono in me la personificazione stessa della medesima» (lettera di Luigi Cadorna a Ninetta, [s.l.] 2 luglio 1917, in L. Cadorna, Lettere famigliari, (a cura di Raffaele Cadorna), Milano: Mondadori, 1967, p. 208).

[8] «Il ricordo è un atto immaginativo il cui significato influenza la valutazione che diamo del presente» (F. Fera, Storie che curano – Dialoghi.it, in www.yumpu.com). Tale asserzione, aderente all’indirizzo dato alle scienze psicologiche da James Hillman, inerente al microcosmo dell’individuo, può essere estesa al macrocosmo della Nazione.

[9] Cfr. voce ‘ardito’, Vocabolario Treccani, www.treccani.it.

[10] Il brano della canzone è tratto Giovinezza primavera di bellezza. Le origini del Canto degli Arditi, in www.arditigrandeguerra.it. Il sentimento di esaltazione guerriera è in antitesi all’empatia provata da diversi Soldati nei riguardi dei loro avversari con i quali condividevano – a breve distanza di spazio – gli stessi forti disagi legati alla vita di trincea. Tale sentimento, seppur chiaramente comprensibile sul piano umano, risultava di fortissimo nocumento allo spirito offensivo necessario all’impegno bellico.

[11] Solitamente con l’espressione ‘Fiamme Nere’ si indicano gli Arditi. Erano altresì presenti le mostrine cremisi presso i Bersaglieri e quelle verdi presso gli Alpini.

[12] L. Freguglia, XXVII Battaglione d’Assalto. Gli Eroi del Montello (a cura di A. Mucelli), Bassano del Grappa: Itinera Progetti, 2017, p. 11.

[13] Cfr. ivi, documentazione iconografica compresa fra le pp. 80 e 81 del volume. I nessi fra religione e guerra sono indagati in J. Hilman, Un terribile amore per la guerra, Milano: Adelphi Edizioni, 2005.

[14] E. De Rossi, La vita di un Ufficiale italiano sino alla guerra, Milano: Mondadori, 1927, p. 281.

[15] L. Capello, Note di guerra, vol. I, Milano: Fratelli Treves Editori, 1921, p. 91.

[16] E. De Rossi, La vita di un Ufficiale italiano sino alla guerra, cit., p. 275.

[17] Anche gli Aviatori subirono sorte analoga: la lontananza dal fango della trincea corrispondeva nella mentalità del Fante (circa la psicologia del Fante cfr. A. Gatti, Caporetto. Dal diario di guerra inedito (maggio – dicembre 1917) (a cura di A. Monticone), Bologna: Il Mulino, 1964, pp. 65 – 66) ad uno status degno di invidia, sentimento immediato e, come tale, inconsapevole delle altissime percentuali di rischio connesse a tali ambiti elitari.

[18] Generale Giuseppe Musinu (Thiesi, 22 marzo 1891 – ivi, 4 aprile 1992). Il brano dell’intervista televisiva rilasciata dal Generale in occasione dei suoi cento anni compare al link https://youtu.be/o_ytrMoUU9A.

[19][19] Risulta indicativo, al pari di una sintesi di tale declinazione, l’iter compiuto dall’Aviazione: da sport per eccentrici (guardato inizialmente con scetticismo ed estrema diffidenza) ad arma del futuro, nell’arco di pochissimi anni.

[20] F. S. Grazioli, In guerra coi Fanti  d’Italia, Roma: Libreria del Littorio, 1930, p. 60.

[21] Ivi, p. 66.

[22] Dell’azione propedeutica (morale e pratica)  necessaria alla vittoria importante di Gorizia si trova ampia trattazione in Note di guerra (vol. I), memoria difensiva del generale Capello, pubblicata pressoché a ridosso dell’uscita della Relazione della Commissione d’inchiesta su Caporetto. La memoria del Generale confuta le accuse rivoltegli da una Commissione – come divenne presto palese – non informata da criteri di obiettività nel proprio operare. Anche il testo citato di Grazioli, seppur scritto quando, per motivi politici, oramai Capello era caduto definitivamente in disgrazia, si dimostra concorde con quanto sostenuto dal Generale in Note di guerra.

[23] G. Tommasi, Brigata Sassari. Note di guerra, Roma: Tipografia Sociale, 1925, p. 17. «E lo sa chi vi parla, avendo presenti i ricordi che di Capello serbarono gli uomini della Brigata Sassari, per sua volontà composta esclusivamente da sardi» (A. Corona, Capello massone, in AA.VV., Luigi Capello. Un Militare nella storia d’Italia (a cura di Aldo A. Mola), Cuneo: Edizioni L’Arciere, 1987, p. 247).