1866 QUATTRO BATTAGLIE PER IL VENETO

1866 QUATTRO BATTAGLIE PER IL VENETO
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1866 Il Combattimento di Londrone

ORDINE MILITARE D'ITALIA

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CAVALIERE DI GRAN CROCE

Collana Storia in Laboratorio

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.La collana Storia in Laboratorio 31 dicembre 2014

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Testo Progetto Storia In Laboratorio

Il testo completo del Progetto Storia in Laboratorio è riportato su questo blog alla data del 10 gennaio 2009.

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La Collana Storia in Laboratorio al 31 dicembre 2011

La Collana Storia in Laboratorio al 31 dicembre 2011
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mercoledì 11 novembre 2009

GIOACCHINO MURAT-LA DIFESA DEL REGNO
Amm. Sanfelice di Monteforte

Quando Gioacchino Murat divenne Re di Napoli, il 15 luglio 1808, la situazione della Marina, dopo quasi due anni dalla conquista del Regno da parte delle forze francesi, non era delle migliori. La flotta napoletana aveva infatti quasi tutta seguito re Ferdinando IV a Palermo, e collaborava attivamente con la divisione britannica, per soffocare Napoli, impedendo tutti i commerci marittimi con i porti del meridione. Il Regno, quindi, era privo di difesa sul mare, al di là delle fortificazioni costiere.
Già poco dopo l’avvento di re Giuseppe, il 17 aprile 1806, era fallito il primo tentativo francese di dare almeno dei mezzi minori alla nuova Marina: una flottiglia di 10 unità leggere, riunite a Civitavecchia, ebbe, infatti, da Napoleone l’ordine di passare a Napoli, e di battere bandiera napoletana, ma si scontrò con la fregata Sirius davanti a Fiumicino, perdendo la corvetta Bergère, catturata, e rifugiandosi nel Tevere, con gravi danni, tanto che solo due brick, Endymion e Abeille arrivarono a destinazione.
La base di operazioni, dalla quale gli Anglo-Borbonici interdivano tutti i movimenti navali bonapartisti, era la Sicilia, tenuta dalle truppe fedeli a Ferdinando, rinforzate da un contingente inglese che arrivò a contare fino a 17.000 effettivi, nei momenti di maggior pericolo per l’isola[1]. Napoleone, naturalmente, era ben consapevole del pericolo che questa isola gli creava, per i suoi progetti mediterranei.
Già nel 1806, infatti, durante i negoziati di pace che non approdarono a nulla, Bonaparte aveva offerto agli Inglesi prima Hannover, poi aveva proposto di dare la Dalmazia a re Ferdinando, sempre come merce di scambio per la Sicilia, pur di togliersi questa spina dal fianco.
Ma il governo britannico aveva ben chiaro che, a riguardo dell’isola, “la sua cessione avrebbe comportato il ritorno di tutte le paure circa le ambizioni mediterranee della Francia, nonché problemi connessi al rifornimento di Malta”[2]. Bisogna riconoscere che la valutazione inglese era saggia, tanto che essa avrebbe trovato una puntuale conferma della sua correttezza un secolo e mezzo dopo, nel corso della seconda guerra mondiale.
Come abbiamo visto, gli Anglo-Borbonici erano basati a Palermo, ma, per proiettare forza in modo efficace, avevano stabilito presenze avanzate sulle isole del Tirreno meridionale, stabilendo ancoraggi protetti, anzitutto alle Eolie, e quindi a Capri, Ponza e Ventotene, con queste due ultime isole affidate a contingenti borbonici.
Da lì, le loro navi, leggere e veloci, infiltravano forze e armi sulla terraferma, in appoggio alle rivolte lealiste, ma soprattutto conducevano la guerra di corsa, assalendo anche il traffico costiero di cabotaggio, vitale per trasferire merci e forze da un punto all’altro dello stivale, visto che le strade, in quel periodo, erano decisamente malagevoli.
In più, le navi anglo-borboniche controllavano i mari intorno allo stivale, catturando i nemici isolati che capitavano a tiro. Fu così che vennero catturati la cannoniera Le Requin, nella rada di Paxos, e la goletta Psyché, quest’ultima al comando del tenente di vascello Daboville.
Ne avevano anche fatto le spese gli stessi Bausan e Correale, che avevano invano tentato, con le loro cannoniere, di raggiungere Gaeta, assediata dal generale Massena, per appoggiare l’assedio dal mare. Il primo fu attaccato, il 4 luglio 1806, al Lido di Castellone, e fece spiaggiare i suoi mezzi, per difenderli, mentre il Correale dovette “ancorarsi nel Garigliano, dove fu attaccato a tiro di pistola da 14 unità borboniche”[3].
Fatto ancor più grave, i nemici controllavano di fatto ogni uscita dal golfo di Napoli, grazie al possesso di Capri. Bisogna ricordare, infatti, che all’epoca delle vele quadre, si entrava a Napoli da ponente, non appena si levava la brezza di mare, così frequente e piacevole d’estate, mentre, per uscire dal golfo, si poteva accedere al Mediterraneo solo attraverso il passaggio di Punta Campanella, facilissimo da bloccare con un paio di cannoni piazzati sopra le rovine della reggia di Tiberio.
Sugli ingressi da ponente al golfo di Napoli, invece, la distanza delle isole pontine dal Canale di Procida consentiva un controllo solo sulle navi d’altura, che passavano loro vicino, mentre almeno le piccole unità, randeggiando la costa, riuscivano a tenere qualche collegamento con Gaeta e, più a nord, col Regno d’Italia.
Era quindi un blocco marittimo in piena regola, che impediva il grande commercio internazionale, ma in molti casi incideva anche sul cabotaggio, che consentiva quegli spostamenti ed il sostegno alle forze di terra, di cui Murat necessitava, nelle varie zone del Regno, per sopprimere le rivolte lealiste.
Infatti, solo “la sconfitta dell’insurrezione borbonica in Cilento, Basilicata e Calabria consentì di collegare la costa tirrenica – e poi anche quelle ionica e adriatica – del Regno al sistema di difesa costiera e di protezione del cabotaggio dell’impero francese, con una linea di stazioni telegrafiche e di 140 batterie servite da 1200 artiglieri litorali, integrata da 50 cannoniere ripartite in divisioni di 6 unità[4].
Il sistema era, come si vede, analogo a quanto Napoleone aveva organizzato lungo le coste europee del suo impero, per limitare l’impatto del blocco navale inglese. Non era, in effetti, un sistema risolutivo, visto che le quantità di materiali, ed i numeri di soldati, trasportati da ogni convoglio, era ridotto: i barconi, simili ai gozzi che oggi ci consentono i bagni di mare in acque pulite, portavano poche tonnellate ognuno.
Ciò nonostante, il cabotaggio consentiva, bene o male, un minimo di movimenti, anche se gli attacchi degli Anglo-Borbonici, fin sotto costa, erano frequenti. Fra questi, fecero scalpore il vittorioso combattimento, sostento dal tenente di vascello Giovanni Caracciolo, il 14 marzo 1809, davanti a Terracina, nel quale egli salvò il convoglio da lui scortato, quindi la cattura, nel cantiere a Barletta, della goletta Pugliese, quando la sua costruzione era praticamente completata, nel febbraio 1810, ed infine i due scontri del 12 e 16 aprile 1812, il primo nelle acque di Salerno ed il secondo sotto alla batteria di Cirella, conclusi il primo con la perdita del convoglio, ed il secondo, invece, con la cattura di tre legni nemici.
Il blocco al golfo di Napoli, però, era asfissiante, tanto che Murat decise, come prima mossa, la riconquista di Capri, di cui vi parlerà, fra breve, l’Ammiraglio Cesaretti. A questo successo, gli Anglo-Borbonici risposero, inviando la flotta inglese davanti a Ischia e Procida, il 24 giugno 1809, al comando dell’Ammiraglio Martin, flotta cui erano aggregate “le fregate borboniche Minerva e Sirena, il pacchetto Tartaro e 14 cannoniere, agli ordini del capitano di vascello Vicuña”[5]. Le guarnigioni, troppo deboli per resistere, si chiusero nei forti, e le isole caddero.
A questo punto, Murat decise, tardivamente, di soccorrere le isole, e inviò alla riscossa l’unica sua fregata, la Cerere, comandata da Giovanni Bausan, insieme alla corvetta Fama, comandata dal Sozi Carafa. Le due navi dovevano essere appoggiate da 8 cannoniere di Pozzuoli, ed anche da quelle, ben 30, del Caracciolo, che furono fatte arrivare da Gaeta, dove erano di base.
L’Ammiraglio Martin, da parte sua, mantenendosi al largo con i vascelli, per non rischiarli in acque ristrette, aveva inviato, per bloccare il Canale di Procida, una forza uguale a quella napoletana, composta dalla fregata Cyane, dal brigantino Espoir e da 12 cannoniere.
Ne seguirono tre giorni di combattimenti, il primo il 25 giugno, fra le fregate, che costrinse la Cerere a rientrare a Pozzuoli, per riparare i danni subiti, in realtà non gravissimi. Purtroppo, questo scontro, svoltosi un giorno prima che il Caracciolo potesse arrivare da Gaeta, mise i nemici in condizione di affrontare quest’ultimo da solo, il 26, quando, su ordine di Murat, questi tentò di forzare il passaggio, con l’unico appoggio della batteria di Miliscola.
“Il Caracciolo si batté per tre ore: un brick nemico fu bruciato, una cannoniera inglese fu anche colata a picco, mentre i napoletani (bonapartisti) perdettero alcune cannoniere ed altre finirono sulla spiaggia”[6]. Decisivo, per gli Anglo-Borbonici, fu l’intervento della fregata Cyane, che fece strage delle piccole navi avversarie. In buona sostanza, come dice uno storico recente, per colpa “del dissennato ordine di Murat, (si) persero 23 cannonere su 31”[7].
Il giorno successivo si ebbe infine il famoso scontro fra la Cerere e la Cyane, nel quale il Bausan si batté con onore, tanto da meritare la viva riconoscenza del Re. Ma, in definitiva, tutti questi eroismi furono inutili, avendo Murat dimenticato di concentrare le sue forze navali, impiegandole invece alla spicciolata.
Ora l’ingresso al golfo era veramente bloccato, e il vantaggio conseguito con la presa di Capri era stato in parte controbilanciato, con l’effetto che gli Anglo-Borbonici furono sempre più presenti, con le loro navi di altura, nel golfo.
Per rivalersi, Murat progettò, sempre nel 1809, la riconquista delle isole pontine, in modo da ridurre la minaccia contro le comunicazioni marittime con il nord.
La spedizione venne anullata, ma “la notizia dell’allestimento fu sufficiente ad indurre il principino di Canosa ad evacuare l’unica base borbonica. L’occupazione dell’arcipelago pontino non attenuò peraltro le incursioni inglesi, né la piccola forza navale napoletana, sempre confinata nel golfo di Napoli, era in grado di difenderlo”[8]. Ponza, infatti, fu riconquistata senza sforzo nel 1813 dagli Inglesi, questa volta in via definitiva.
Murat, peraltro, si rese conto di non potersi limitare alla difesa delle coste, con al massimo qualche colpo di mano, per riprendersi le isole minori, azioni, peraltro, non decisive per allentare la morsa che lo soffocava. Era infatti necessario fare qualcosa di più.
Due furono, quindi, i provvedimenti che egli prese: il primo fu la decisione di ricostruire una piccola flotta d’altura, ed il secondo fu il tentativo di sbarcare il Sicilia, in modo da recidere la minaccia alla sorgente. Nessuno dei due era facile da conseguire, ed infatti Murat incontrò enormi difficoltà in ambedue i casi, come vedremo fra breve.
Cominciamo dal problema della flotta. Al suo arrivo, re Gioacchino aveva trovato, nel porto di Napoli, due fregate, la già citata Cerere e l’Aretusa, oltre alla corvetta Fama, al brigantino Sparviero ed alla goletta Gioia, tutte in disarmo.
La carenza di equipaggi permise di armarne solo tre, e precisamente la Cerere, la Fama e lo Sparviero, che furono impiegate, prevalentemente, per la difesa del golfo di Napoli. Solo una volta, il 3 maggio 1810, le tre navi furono inviate a Gaeta, per scortare un convoglio diretto da quel porto verso Napoli, ma furono intercettate da una forza avversaria, condotta dalla fregata Spartan, e dovettero ripiegare, con la perdita dello Sparviero, catturato dopo un’epica resistenza.
Bisognava quindi costruire altre navi, e per questo vi erano le conoscenze ed i mezzi necessari, visto che il cantiere di Castellammare e l’arsenale di Napoli costruivano navi da guerra, di ottima qualità, da molti anni. Anche se, al momento di partire per la Sicilia, la regina Maria Carolina aveva ordinato che i due stabilimenti fossero dati alle fiamme, in realtà erano state bruciate solo le riserve di legname, il che avrebbe ritardato i programmi di costruzione, ma non li rendeva impossibili.
Vi era, inoltre, sugli scali un vascello da 74 cannoni, quasi completato, che fu ribattezzato Capri e varato il 21 agosto 1810. Purtroppo, un nemico imprevedibile era in agguato, per Murat. Napoleone, infatti, aveva incoraggiato il cognato nei suoi sforzi di costruzione navale, non per aumentare la consistenza della flotta napoletana, bensì per ricostruire quella francese. Egli, infatti, aveva imposto a Murat, con il trattato di Bayonne, di “fornire alla Marina imperiale 6 vascelli, 6 fregate e 6 corvette o brick, lo stesso numero delle unità pianificate da Acton e costruite a Napoli e Castellammare nel 1786-96”[9].
Ovviamente, questo ritmo di costruzioni non era materialmente realizzabile, a prescindere dalle esigenze della Marina napoletana, ma ogni volta in cui una nuova nave veniva completata nel Regno, Napoleone scriveva lettere di fuoco, pretendendo che questa fosse inviata a Tolone.
Questo accadde prima per il varo della fregata Carolina, il 16 giugno 1811, quindi per il completamento del vascello Gioacchino, sempre da 74 cannoni, il 1 agosto 1812, ed infine, pochi mesi dopo, quando la fregata Letizia, “il 25 dicembre 1812 venne lanciata in mare, nell’arsenale di Napoli”[10].
A queste navi di linea si aggiunsero, nel febbraio 1810, quattro golette statunitesi, confiscate ai loro armatori, per aver cercato di violare il blocco continentale. Solide e semplici da manovrare con un equipaggio ridotto, le quattro navi, poi integrate da altre due di costruzione locale, resero ottimi servigi, compiendo numerose scorte convogli, oltre ad integrarsi nei gruppi navali, vuoi quelli delle cannoniere, vuoi i gruppi di navi di linea, nel corso delle operazioni. Furono, quindi, i classici animali da soma che non tradirono mai le aspettative.
Per quanto concerne le navi maggiori, malgrado le pressioni del cognato, Murat resistette, concedendo al massimo l’invio di alcuni equipaggi napoletani, per armare le navi di Tolone. Una flotta gli serviva, anche se egli poi disse al colonnello Darlymple, il 27 marzo 1815, “che era stato Napoleone a forzarlo di dotarsi di una flotta d’alto bordo, di cui non sentiva alcun bisogno e di cui era pronto a disfarsi”[11].
Più difficile fu, invece, la formazione degli equipaggi, che non raggiunsero mai il livello di organico desiderato, anche a causa delle esigenze concorrenti dell’Esercito e delle forze di sorveglianza costiera. La piccola flotta di Murat, comunque, lo seguì in Adriatico, appoggiandolo dal mare, per la irrealizzabile epopea finale, con cui Gioacchino sognava di conquistare l’Italia, unificandola sotto il suo scettro.
L’altro grande progetto di Murat era la conquista della Sicilia, impresa che era stata ideata nel passato dallo stesso Napoleone, il quale pensò ad un attacco con piccole imbarcazioni, sullo stile della flottiglia che lui aveva voluto a Boulogne, per invadere l’Inghilterra.
Mentre l’Imperatore aveva fatto poi cadere l’idea, avendo visto le sue difficoltà, Gioacchino volle metterla in pratica, radunando, attorno a Reggio Calabria, un esercito di 16.000 soldati. Per il trasporto, furono previste 300 imbarcazioni, racimolate in tutti i porti del Regno.
La scorta ed il bombardamento delle posizioni nemiche era affidata, come al solito, alle eroiche cannoniere, che furono concentrate, per l’occasione, nello Stretto di Messina, dove si distinsero in accaniti combattimenti con le analoghe imbarcazioni borboniche, altrettanto decise a prevalere.
Sta di fatto che, di mezzo, c’era anche la flotta britannica, rinforzata dalle fregate borboniche, che impedì ai murattiani di conquistare il controllo dello Stretto. Di conseguenza, “sbarcati 2.500 uomini per poche ore il 18 settembre (1810) e perduti 200 bastimenti, 2.000 marinai e 800 soldati piantati in asso a Messina, Murat ripiegò le bandiere e tornò a Napoli, convinto di essere stato deliberatamente sacrificato dall’invidia del maligno dio-cognato, e nondimeno di aver dimostrato al mondo e ai posteri di aver tenuto in scacco la flotta inglese con i suoi gusci di noce e di poter sbarcare in Sicilia quando voleva”[12].Per concludere, si può dire che Murat si trovò a regnare in una situazione militarmente insostenibile, avendo di fronte un nemico a lui decisamente superiore sul mare, ma che fece tutto quanto un buon governante avrebbe intrapreso in una simile situazione. Anche se egli commise errori, come nel tentativo di riconquistare Procida, e talora si lanciò in imprese al di sopra delle sue possibilità, in termini di mezzi e uomini, nell’insieme i suoi sforzi per acquisire uno strumento militare bilanciato, nelle sue dimensioni terrestre e marittima, sono un esempio valido anche per chi, oggi, ricopre le difficili funzioni di governo.
[1] C. D. HALL. British Strategy in the Napoleonic War. Manchester Univ. Press1992. pg.9.
[2] Ibid. pg. 132.
[3] V. ILARI, P. CROCIANI, G. BOERI. Storia Militare del Regno Murattiano (1806-1815). Ed. Widerholt
Frères, 2007. pg.344
[4] Ibid. Pg. 249.
[5] L. RADOGNA. Storia della Marina Militare delle Due Sicilie. Mursia, 1978. pg. 64.
[6] S. ROMITI. Le marine Militari Italiane nel Risorgimento. Italgraf, Roma, 1950. pg. 87.
[7] V. ILARI etc. Op. cit. pg. 346.
[8] Ibid. pg.250
[9] Ibid. pg. 335.
[10] L.RADOGNA. Op. cit. pg.70.
[11] V. ILARI etc. Op. cit. pg. 245.
[12] Ibid. pg. 248.

domenica 1 novembre 2009

Progetto “Storia in Laboratorio”
Istituto “Colomba Antonietti”
Roma
Via delle Vigne 3
GIORNATA DELLA MEMORIA
25 gennaio 2008


Introduzione
Daniela Bravi[1]

Il 25 gennaio il signor Alberto Mieli è tornato nella nostra scuola per testimoniare il suo doloroso passato di prigioniero nei campi di concentramento nazisti e celebrare con noi la Giornata della Memoria.
Ringrazio con il cuore il signor Mieli, per la sua toccante testimonianza, e tutti coloro che hanno reso possibile questa giornata: la preside prof.ssa Mariacarla Sacconi, gli alunni della Colomba Antonietti, il signor Antonio Rizzuti, il generale Massimo Coltrinari e le docenti Maria Teresa Laurenzi e Valentina Marani.
Queste pagine, che la rivista “Il secondo Risorgimento d’Italia” riserva al progetto “Storia in laboratorio”, raccolgono le riflessioni dei nostri studenti che in questi mesi hanno dedicato molto impegno al lavoro sulla memoria storica e credo che le parole “non posso e non voglio sottrarmi al ricordo”, da loro scelte per la locandina di questa giornata, ne siano una significativa testimonianza, così come le parole tratte dal “Diario di Anna Frank” non potrebbero raccontare meglio le loro speranze e i loro desideri.
In queste pagine sono presenti anche alcuni testi scritti dagli alunni della Scuola Media Giorgio Morandi che, attraverso la collaborazione della professoressa Ciancarelli, ha aderito al nostro progetto, nell’ambito di un lavoro di continuità tra scuole medie e superiori. Siamo felici di questo contributo e ci auguriamo di continuare a lavorare insieme con l’obiettivo di veder crescere nei nostri studenti l’impegno e il desiderio di conoscere.



Cronache di Guerra
La guerra ci ha lasciato molte testimonianze:documenti,trattati…tutti reperti che oggi ci aiutano a ricostruire periodi travagliati e difficili della storia della nostra nazione. Ma chi ci ha permesso di venire a conoscenza della realtà di un periodo cosi buio?
Certe cose possiamo apprenderle solo attraverso chi le ha vissute in prima persona…da chi era lì e ha fatto la storia, la nostra storia! Chi sono queste persone?
I nostri nonni, custodi di verità che i libri ignorano, di conoscenze fondamentali che ci danno uno scenario più completo e il più possibile vicino alla realtà.
Questi importanti testimoni non vanno perduti; vanno trovati, ricercati e interrogati per acquisire le loro conoscenze, i loro frammenti di vita. E’ importante trascriverle prima che esse svaniscano e scompaiano insieme a loro…i nostri “eroi”!
Io ho avuto la fortuna di avere un nonno custode di questo sapere e sono riuscita a trascrivere le sue memorie in forma di intervista, prima che mi lasciasse, qualche anno fa.
Lui mi ha raccontato dei suoi anni di prigionia a Buckenvald, in Germania, durante la seconda guerra mondiale. E’ stato difficile per lui raccontare le immagini che i suoi occhi hanno visto, anche se ciò che più l’ha fatto rabbrividire è stato doverlo ricordare. Ha rivissuto, per un attimo, quei momenti, che chiunque vorrebbe rimuovere dalla memoria, ma che loro, questi “custodi”, invece, conservano gelosamente come parte di se stessi, del loro essere; quelle esperienze, infatti, li hanno portarti ad essere ciò che sono oggi, li hanno mutati profondamente. Tali eventi non possono e soprattutto non devono essere dimenticati; non si devono perdere, perché sono indispensabili per noi giovani che di guerra vera ne abbiamo respirata ben poca…anzi nulla, per fortuna.
Per questo ho voluto fare questa intervista, che ora è diventata un suo ricordo prezioso!!
Dal telegiornale delle 20:00
“Buonasera,cominciamo questo notiziario con una rievocazione del passato, infatti oggi ricorre l’anniversario della liberazione dell’Italia dal fascismo”…
Non so perché, ma ogni volta che qualcosa o qualcuno parla delle sofferenze subite da vittime innocenti, mi immergo nei miei confusi, fitti pensieri e medito…
Penso alle torture a cui sono state costrette quelle persone, ai soprusi e alle condanne che hanno dovuto subire, al sacrificio di milioni di caduti che oggi vengono ricordati per il loro coraggio, per la loro perspicacia, per il loro valore, per la loro voglia di vincere in nome della libertà.
“Nonno, ricordi tu qualcosa della guerra, di quando eri giovane?”
“Certo, io ritengo che sia impossibile dimenticare quegli anni, quelle crudeltà; sono cose della vita che rimangono scolpite per sempre nella mente, niente e nessuno potrà mai impedirci di sminuire l’importanza di tutto ciò che abbiamo dovuto subire.
Vedi, già prima della guerra le condizioni non erano delle migliori.
Il fascismo aveva, ormai, già preso piede in tutta l’Italia; aveva praticamente cancellato ogni sorta di libertà, ci aveva demoralizzati, scoraggiati, non sapevamo cosa pensare o meglio molti non sapevano più, non sapevano più.
Io, invece, ho sempre creduto nella speranza di una fine di tutto ciò ed ho creduto nel coraggio di tutte quelle persone a causa della spietatezza di uomini come Hitler e Mussolini, bestie umane, non degne di ricevere un posto nelle menti della gente o addirittura nei libri di storia.
Ricordo che, quando ero poco più piccolo di te, non esistevano tutti gli agi che oggi invece è inevitabile che si abbiano.
Alzandomi, all’alba, mi aspettava una dura e intensa giornata lavorativa nei campi: ogni mattina mi chiedevo cosa fosse più giusto in questo periodo, se ascoltare le parole del Duce e ritenerle esatte o se continuare a credere nelle nostre umili forze. Poi però la risposta veniva da sola… tornando a casa le fatiche non erano ancora finite; dovevo, infatti, partecipare obbligatoriamente ai raduni quotidiani dell’OPERA NAZIONALE. Se ciò non era effettuato spesso le guardie avevano il coraggio di arrestare o addirittura uccidere coloro che si rifiutavano di obbedire e che erano coerenti con le loro idee di libertà. Se accettavi ciò che voleva il Duce, era tutto a posto, ma se provavi a liberarti, anche solo a parole, senza nulla di fatto, rischiavi non solo tu ma anche la tua famiglia: molte volte strappavano i bambini in tenera età dalle calde braccia della madre, li tiravano in aria e poi, non so con quale freddezza, con che cuore, sparavano loro uccidendoli. Tutto ciò davanti ai vuoti occhi della mamma che a quel punto chiedeva al soldato il favore di ucciderla poiché non aveva nulla per cui continuare a vivere, le era stata portata via una parte di lei che per nulla avrebbe mai abbandonato.
Bene, tornando al discorso di prima, l’OPERA NAZIONALE era un raduno che raccoglieva giovani dagli otto ai diciotto anni o più e impartiva loro un’educazione soprattutto fisica e paramilitare; i giovani dovevano indossare una divisa ed era obbligatorio saper utilizzare il moschetto. Uno degli slogan che spesso ci facevano ripetere centinaia di volte era:”LIBRO E MOSCHETTO, FASCISTA PERFETTO!”
In seguito, mentre militare mi trovavo a Gorizia, qualcosa sconvolse la mia vita: il 21 agosto del 1943 mi presero i fascisti e, con il mio reparto, ci ordinarono di seguirli.
In quegli istanti si era sempre così crudelmente indecisi sul da farsi: se arrendersi completamente alla loro forza, piegarsi alla loro volontà o aggrapparsi anche all’ultimo spiraglio di luce e tentare il tutto per vincere. Comunque mi presero e mi consegnarono ai tedeschi.
Fui portato assieme ad altri sfortunati come me al campo di concentramento di Buchenwald. Era un luogo di desolazione, mi guardavo intorno ma c’erano solo sguardi straziati di persone innocenti costrette a lavorare o ad uccidere i loro amici per vivere, buio e tristezza. Ci portarono dentro un enorme capannone, ci fecero spogliare completamente e ci presero tutti gli abiti. In quella stanza c’erano appese delle docce da cui usciva acqua e spesso gas. Dopo il bagno ci fecero uscire di fuori nudi e d’un tratto ci spruzzarono sulla pelle una sostanza disinfettante che bruciava così tanto che per giorni successivi ci guardammo sconcertati a causa delle numerose piaghe procurate da quella sostanza. Per queste violenti azioni non riuscivo più a capire se il termine “bestie” era da attribuire ad un animale selvaggio o ad esseri come Hitler o Mussolini, non lo capivo proprio.
Dopo di che, ci buttarono dentro un tendone lungo circa 200-300 m. e ci tennero lì per qualche giorno. Poi c’era chi s’ammalava a causa dell’assenza di norme igieniche e spesso mi accadeva di svegliarmi e scoprire che il mio vicino era morto: quei visi lividi, color violaceo, a volte mi incutevano paura, timore di morire, a volte invece erano proprio loro a darmi la forza di sperare, pensavo a loro e speravo.
Ricordo il giorno di natale del 1943; poiché le razioni di cibo non erano mai sufficienti, con gli altri due compagni, di cui ricordo anche i nomi, Luigi Fogliari “Cravatta Rossa”della divisone Garibaldi e Bontempi Sabatino della Cavalleria, tirammo a sorte chi dovesse rischiare di prendere qualcosa in più da mettere sotto i denti. Toccò a me. Mi diressi verso le cucine, ma purtroppo inciampai in una guardia che mi chiese se avessi la tessera o meno. Io non sapevo cosa dire e rimasi a guardarla. Fortunatamente anche la guardia si ricordò che era Natale e chiuse un occhio, “anzi tutti e due”!
Così riempìi tre gavette con quel purè di piselli, cinque patatine una fettina di pane sottile come l’ostia. Ma i nostri stomaci, non essendo abituati a tutto quel “Ben di Dio”, cominciarono ad avere dei problemi, che fummo costretti, inoltre, a nascondere, per timore che le guardie ne scoprissero le cause.
I giorni passavano monotoni; spesso ci ordinavano di accatastare i cadaveri per i forni crematori. Un giorno una guardia, di cui ricordo anche il nome, Slim, mi portò davanti ad uno di essi e mi ordinò di prendere il carrello, pieno di cadaveri di altri sventurati prigionieri, e di bruciarli insieme a pezzi di legno. Io mi rifiutai rischiando anche la pelle. Spesso, ci portavano a rimuovere le macerie causate dai bombardamenti. Una volta mi capitò di vedere un mucchio di rape, vicino alle rovine che stavano rimovendo e tentai di prenderne qualcuna, ma fui sorpreso da una guardia che, per punirmi, mi portò in una fortezza vicino Herne, in cui c’era la compagnia di disciplina. Qui, mi maltrattarono: mi diedero calci e mi buttarono per terra, poi uno di loro mi ordinò di prendere una spazzola con setole di ferro e di “pulire” un altro povero disgraziato come me: era uno scheletro vivente; al mio rifiuto, mi sbatterono in una cella dove caddi nel sonno. Non so se nel delirio o in sogno, mi sembrò di vedere la Madonna Del Campo (patrona di Cave) che mi invitava ad alzarmi. Nel frattempo arrivò il maresciallo della compagnia di disciplina, che mi riportò nel campo di concentramento.
In seguito, incontrai per puro caso un mio cugino, di nome Agostino, in occasione di una “decimazione”: ci disposero in due file di cinque, da una parte e dall’altra, io capitai tra i “fortunati”; fu l’ultima volta che lo vidi. In tutta questa tragedia, ricordo anche con piacere dei momenti di umanità da parte di una famiglia di contadini, che viveva in una fattoria lì vicino: di nascosto una ragazza di cui ricordo il nome, Elise, passava qualcosa da mangiare, qualche buccia di patata, del pane ed altri viveri, in quantità necessarie per sopravvivere. Dopo tante sofferenze, dopo tante crudeltà, il 1° Aprile del 1945 fui liberato, esattamente alle 3,05 di mattina.
Alla fine di tutto questo racconto ho capito che, spesso, tra persone si parla di seconda guerra mondiale, di invasione o armistizi, ma in realtà la vera storia, ciò che è veramente successo, è raccontata dai ricordi dei nostri nonni, dei nostri zii, che ancora oggi portano nel cuore quelle crudeltà.







La Memoria Storica

Cicchinelli Dario
Anni 16, Classe III S, Liceo Scientifico Tecnologico

Senza conoscere la storia e gli avvenimenti del passato, come possiamo conoscere o almeno cercare di interpretare il presente ed essere pronti per affrontare il futuro? Questa è la domanda che mi pongo riflettendo su questo argomento.
L’ affermazione B. Spinelli ne “Il sonno della memoria”: “essere nani che camminano sulle spalle dei giganti” è per me emblematica. Se ci pensiamo bene, la nostra vita non dura che qualche decennio e in questo breve lasso di tempo dobbiamo cercare di non ricadere negli stessi errori commessi in passato, anzi, dobbiamo conoscerli per migliorare il futuro, infatti se non conosciamo quei “giganti”, che rappresentano i nostri avvenimenti passati, non abbiamo basi da cui partire.
Sono d’ accordo con il pensiero di Hobsbawm quando afferma nella sua opera “Il secolo breve” che i giovani non conoscono fino in fondo il passato. Al giorno d’ oggi, infatti, noi ragazzi non diamo particolare importanza ad un libro di storia o ad un qualsiasi avvenimento ascoltato al telegiornale.
Per esempio il 2 Giugno per noi è solo un giorno di festa; pochi di noi sanno che questa data rappresenta la proclamazione della Repubblica Italiana, così la maggior parte di noi utilizza questo giorno per dedicare tempo ed attenzione alla propria famiglia, agli amici o semplicemente a se stesso. Sono rari i momenti dedicati alla riflessione e alla memoria dello sforzo e dei sacrifici compiuti per la conquista della libertà e dell’ autonomia, in tutte le sue forme, che caratterizzano la Repubblica Italiana.
Il tema della memoria, soprattutto ultimamente, è molto vivo. Il 27 Gennaio di ogni anno ricorre la “Giornata della memoria”, per ricordare l’ olocausto e tutte le vittime del nazismo e nella nostra società si dà molta importanza a questo evento. Ne parlano i mas-media, i film e anche nella nostra scuola c’è stata data l’ opportunità di ascoltare la testimonianza di un reduce dei campi di concentramento nazisti, il signor Alberto Mieli. Le sue dichiarazioni, toccanti e a tratti molto crude, ci hanno permesso di capire meglio le oscenità compiute durante la seconda guerra mondiale.
Abbiamo capito che a volte gli uomini accecati dal desiderio di potere e dominio tendono a sopraffare e sottomettere gli altri, più deboli e indifesi, per ragioni assurde.
Le parole del signor Alberto Mieli mi hanno fatto capire l’ importanza di “non dimenticare”.
L’ uomo porterà sempre e comunque con sé il suo passato. Questo è un bene.
Se l’ uomo dimentica, rischia di tornare al passato, invece di costruire un futuro solido e consapevole.

La memoria e la Shoah
Orsetti Andrea
Anni 18, Classe V S Liceo Scientifico Tecnologico

La shoah, uno dei crimini più efferati mai commessi contro degli uomini, può lasciarci un dono prezioso… La sua stessa memoria. Infatti tramite essa noi potremmo evitare di commettere errori simili a quelli che commisero i nostri avi permettendo un massacro del genere. Potremmo chiederci: “Io come avrei agito se fossi vissuto in quell’epoca, in quella realtà?”. Probabilmente riterremo che noi ci saremmo comportati in modo diverso dagli aguzzini, non riusciamo neppure a comprendere crimini così efferati. Ma come possiamo essere così certi della nostra indipendenza dalla massa? Le persone del tempo non erano certo più crudeli di quelle che ci sono oggi ma erano state convinte da una propaganda intensa che quelli erano i nemici della nazione e che bisognava eliminarli. Probabilmente la maggior parte delle persone che ci sono oggi non avrebbe agito in maniera diversa da quella delle persone comuni del tempo. E’ proprio per questo motivo che bisogna conservare la memoria, per rammentare cosa l’uomo è riuscito a fare e cosa l’uomo non dovrà più fare. Non possiamo farci chiudere gli occhi dalla propaganda o dai mezzi di comunicazione ma dovremmo affidarci al nostro cuore ed alla nostra coscienza. Un mezzo per riuscire a comprendere cosa avremmo fatto se ci fossimo ritrovati in una situazione simile a quella che affrontarono i nostri nonni è il comportamento che noi abbiamo nei confronti dei “diversi” nella nostra società. Cosa ne pensiamo degli immigrati, degli omosessuali o di chi ha semplicemente un pensiero diverso dal nostro? La nostra tolleranza nei confronti di chi è diverso da noi è un indizio per riuscire a valutare quanto abbiamo compreso la lezione che ci ha lasciato l’olocausto. Purtroppo sembra che le persone non si interessino affatto di essere tolleranti nei confronti del loro prossimo. Infatti nonostante molti si definiscano cristiani vanno contro gli stessi principi biblici che predicano la fratellanza ed il rispetto per tutti gli altri uomini. E’ vitale perciò continuare a parlare della shoah ma non solo di questa, ricordando che anche molti altri subirono le discriminazioni del nazismo. Slavi, testimoni di Geova, oppositori politici, omosessuali, zingari ed altri ancora finirono nei lager tedeschi e purtroppo spesso non vengono ricordati abbastanza. Bisognerà quindi allargare il discorso dell’olocausto ebraico in modo tale da includere tutti i discriminati così da impegnarci a distruggere tutte le forme di razzismo. In questo periodo di tempo nel quale si sono riaffacciate le teorie del negazionismo e del revisionismo bisogna interessarci a mantenere viva la memoria alimentandola costantemente e senza posa come una fiamma in modo tale da permettere ad essa di illuminare il nostro futuro così da non ricadere in errori così gravi. Ad aiutarci in questo potranno essere le storie di tante persone normali la cui vita è stata squassata da quell’uragano che fu il nazionalsocialismo. Immedesimandoci in quelle semplici persone potremmo riuscire a comprendere a cosa portò la discriminazione razziale al tempo in modo tale da non ripetere gli sbagli dei nostri avi.


“Non una religione…ma una condizione esistenziale…”
Giorgi Riccardo, Cherubini Andrea
Anni 18, Anni 18, Liceo Scientifico Tecnologico

Il giorno 15 Febbraio nel corso del progetto “STORIA IN LABORATORIO” abbiamo avuto l’onore di incontrare nella meravigliosa sala del Carroccio in Campidoglio la scrittrice Lia Levi, in occasione della presentazione del suo nuovo libro “Trilogia della Memoria”, in cui sono raccolte le tre precedenti opere: “Una bambina e basta”, “L’Amore mio non può” e “L’Albergo delle Magnolie”.
La scrittrice era stata invitata nel Febbraio 2007 nella nostra scuola per parlare dei suoi libri e per dare a tutti noi la sua testimonianza sulla shoah e sulle leggi razziali del 1938; la signora Levi è stata molto contenta dell’incontro ed è nato tra noi un legame. Per questo e per ringraziarci del nostro interessamento e della nostra cordialità, ci ha invitato a partecipare a questo nuova riunione.
Durante la presentazione erano presenti alcuni testimoni, tra cui l’autore della prefazione Aldo Zargani e la signora Franca Eckert, che hanno parlato delle loro vicissitudini e del loro impegno nel rappresentare una religione che nel corso dei secoli è stata sempre perseguitata e oltraggiata. Inoltre sono state raccontate delle testimonianze molto toccanti e piene di emozioni profonde sia da parte della scrittrice sia da parte dei suoi amici e collaboratori.
Nella prefazione di questo libro si parla di ciò che vuol dire essere ebreo. Lo scrittore ha raccontato che molte volte si è sentito chiedere: ”Che cosa significa essere ebrei?” e risponde sempre con queste parole: “ la nostra non è solo una religione, non è una fazione politica, non un ideale, bensì una condizione esistenziale ”.
Oggi molti ebrei sono orgogliosi di questa loro “condizione” a differenza dei decenni precedenti quando molte persone e soprattutto bambini erano costretti a nascondere la loro vera identità per sfuggire al loro destino segnato dall’odio e dall’intolleranza dei regimi totalitari a cui non si possono trovare giustificazioni. Proprio nel ricordare la sofferenza che i bambini subirono in quel periodo, tra la signora Levi e la signora Eckert si è aperto amichevolmente un piccolo discorso sulla frase con cui termina l’opera “Una bambina e basta”, cioè quello che disse la madre alla bambina alla fine della guerra:” tu non sei una bambina ebrea, tu sei una bambina e basta ”; per la signora Levi “una bambina e basta” è il segno della libertà di poter essere se stessi; per la signora Eckert, invece, poter affermare di essere “una bambina ebrea” è il segno della fine di ogni discriminazione ma anche dell’orgoglio di essere ebrei.
Un altro momento è stato ricordato da una signora del pubblico che è intervenuta raccontandoci un episodio del suo passato ricordando quando, da bambina, insieme ad una sua amica, ebrea anch’essa, dovevano nascondere il loro vero cognome perché ebreo e chiamarsi col nome della mamma per paura delle leggi razziali. In un giorno invernale, di ritorno da scuola, le due bambine si trovarono davanti ad un vetro appannato dal caldo vapore che c’era in casa e mosse dalla voglia di esprimere la loro vera identità con le loro dita scrissero i loro veri nomi su quel vetro. La felicità di vedere quei nomi scritti sul vetro era enorme, ma in un attimo si esaurì perché appena il vapore tornò a coprire i loro nomi anche la loro felicità sparì.
Concludiamo questa breve relazione con la speranza di portare alla luce del sole i problemi che si celano dietro l’indifferenza delle persone che messe davanti a queste questioni ancora pensano di poter sfuggire alla memoria dell’orribile passato che gli ebrei sono stati costretti a subire e che ancora non vogliono venire a conoscenza di questi terribili fatti.



Non dobbiamo dimenticare
Giovanni Zuccari
Anni 16, Classe III S Liceo Scientifico Tecnologico

Io credo che le tragedie come quelle avvenute durante la seconda guerra mondiale nei campi di concentramento debbano avere un posto di rilievo nella mente di ciascun individuo, chiunque esso sia, per cercare di non commettere in futuro gli stessi errori commessi in passato da persone senza cuore. Persone incapaci di ragionare e di pensare prima di aprire il fuoco su un bambino indifeso, o su un anziano malato, solo perché ebreo o zingaro. Non dobbiamo dimenticare questi episodi, per non commetterli noi stessi e per poter raccontare ai nostri figli quelle testimonianze. Anche oggi, però, nel mondo continuano ad avvenire orrendi massacri, come ad esempio in Africa. Anche se ogni anno celebriamo la giornata della memoria il 27 Gennaio, sembra che per alcuni non significhi niente, mentre con un po’ di impegno da parte di tutti, potremo costruire un futuro migliore.

Noi giovani dobbiamo tramandare il passato alle generazioni future
Giovanni Moscati
Anni 16, Classe III S Liceo scientifico Tecnologico

Il 27 gennaio si celebra la giornata della Memoria: in questo giorno del 1945 furono liberati gli ebrei imprigionati nel campo di sterminio di Auschwitz, un luogo che è stato strumento per l’uomo di una scientifica, cinica e macabra realizzazione del male contro se stesso. In questi giorni, quindi, si sente parlare molto spesso di questo delicato argomento che appartiene alla nostra storia recente. Ieri, guardando il telegiornale, ho sentito un intervista fatta ad un adolescente, forse mio coetaneo, il quale esprimeva il proprio giudizio riguardo alla giornata della Memoria, affermando che sarebbe cosa buona dimenticare la Shoah degli Ebrei in quanto al giorno d’oggi non si può ripetere un errore simile come quello verificatosi negli anni della seconda guerra mondiale. Penso che questo non sia giusto. Infatti, bisogna spiegare alla generazione attuale e a quelle successive cosa accadde in quegli anni, che sembrano così lontani da noi, quanto invece siano vicini e siano parte integrante della nostra storia. Noi siamo quello che siamo adesso grazie alla memoria, che ci fa apprendere dal passato quello che è giusto e quello che è sbagliato. D’altronde come dice un famoso proverbio “chi dimentica il passato è destinato a riviverlo”; il passato non deve essere rimosso. Tutti i giorni noi studenti, andando a scuola, studiamo storia con date ed eventi apparentemente per noi inutili, ma è proprio dallo studio della storia, di quello che è accaduto in passato, che potremmo migliorare il futuro. Quindi, come dice E. J. Hobsbawm ne “Il secolo breve”, gli storici devono essere più che semplici cronisti e compilatori di memorie, sebbene anche questa sia la loro necessaria funzione. Il loro ruolo è molto importante anche perché con il passare del tempo, ci sono sempre meno testimoni diretti degli eventi accaduti nel nostro passato recente. Quindi dobbiamo essere noi giovani a tramandare alle generazioni future il passato, in modo tale da custodirlo e farne tesoro per il futuro.

Il passato può sempre insegnarci qualcosa
Michele Salerno anni 16
Classe III S liceo scientifico-tecnologico

Nella società in cui viviamo oggi è facile dimenticare presto il passato, con la continua evoluzione tecnologica e il frenetico modo di vivere della gente. E’ raro oggi che la gente si metta a riflettere su ciò che è stato, che gli errori commessi un tempo possano aiutarci a vivere meglio, è come se a volte fosse più facile dimenticare e vivere solo il presente.
Nietzsche diceva che gli animali vivono solo il presente e non hanno memoria, vivono solo istante per istante senza avere un prima o un dopo; gli uomini sono diversi, essi hanno fatto la storia, hanno costruito un vero e proprio patrimonio dell’umanità e non possono non ricordare. Ci sono stati grandi uomini di cui non dobbiamo dimenticare le gesta, perché se oggi viviamo in questo modo è anche merito di tutti coloro che sono venuti prima di noi. Il passato può sempre insegnarci qualcosa perché è storia già vissuta che può essere esaminata e rivalutata in qualsiasi momento.
A partire dagli ultimi anni del Novecento, purtroppo, la maggior parte dei giovani, come ha detto Hobsbawn, “tende a crescere in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico col passato storico del tempo in cui essi vivono”; proprio per questo si fa più importante, in questi ultimi anni, la presenza degli storici i quali hanno il compito di far ricordare ciò che molti dimenticano: la storia.
Negli ultimi anni è stata indetta la giornata della memoria, la cui ricorrenza è il giorno 27 Gennaio, perché quello stesso giorno nel 1945 sono stati aperti i cancelli del campo di concentramento di Auschwitz dall’ armata rossa, liberando così i pochi ebrei rimasti in vita dopo la deportazione da parte dei nazisti. Questa ricorrenza, oltre a ricordare l’ uccisione di milioni di ebrei, serve a capire quanto sia importante ricordare il passato e non dimenticarlo proprio per evitare di compiere di nuovo gli stessi errori.

L’uomo non può fare a meno di ricordare
Lorenzo Arione
Classe III S, Anni 16, Liceo scientifico tecnologico

La memoria storica ha sempre avuto un ruolo importante nello sviluppo e nel progetto umano per il futuro. Il passato serve per capire meglio il presente, perché grazie agli eventi già accaduti possiamo evitare di commettere gli stessi errori. Secondo il filosofo Nietzsche l’uomo non può fare a meno di ricordare. La maggior parte dei giovani, secondo Hobsbawn, vive in un presente nel quale manca ogni rapporto con il passato storico, questo rende più difficile il lavoro degli storici, che non devono essere solo semplici cronisti e compilatori, ma devono far capire che conoscere il passato serve a comprendere quello che ci circonda. L’uomo è incapace di allacciarsi alla memoria storica, il che non è un bene per la società e porta a commettere gli errori del passato.
La memoria è il ricordo del passato e ci aiuta a capire quello che è accaduto per non sbagliare nel futuro.




Custodire il passato per progettare il futuro
Labartino Simone
Anni 16, Classe III°S, Liceo scientifico tecnologico

Che cos’è la storia? Da studente non posso che riferirmi alla Storia come materia scolastica, a volte morbosamente noiosa, a volte incredibilmente affascinante. Di recente mi sono chiesto quale sia l’ importanza di questa materia, perché io ed i miei compagni dobbiamo imparare nomi e date di secoli e secoli sepolti dietro le nostre spalle, perché dobbiamo ricordare persone che non abbiamo conosciuto, eventi a cui non abbiamo partecipato, date che per noi non hanno significato o luoghi nei quali non abbiamo mai messo piede. Perché è così importante ricordare il passato? Perché dobbiamo ricordare? La storia non racconta solo lieti avvenimenti, anzi, ad ogni pagina di un libro di testo sono citate migliaia e migliaia di guerre, tra le parole dei tanti capitoli sono nascosti migliaia e migliaia di morti; perché quindi dovremmo ricordare quella storia che narra il dolore e la sofferenza dell’ uomo fino ai giorni nostri? Molti pensano che lasciandosi alle spalle ogni evento negativo si possa proseguire il proprio cammino conservando almeno la speranza di un futuro migliore. Sarebbe facile, in questo modo, dimenticare gli infiniti morti che la storia si è lasciata dietro durante il suo corso, dimenticare tutte quelle guerre così lontane nel tempo da apparire inutili da ricordare.
Alla fine sono arrivato a credere che ricordare sia il senso stesso della vita, perché tutti noi dobbiamo fare in qualche modo “ i conti” con il nostro passato, tutti noi dobbiamo ricordare la sofferenza ed il dolore dei secoli trascorsi e tenere sempre vivi nella nostra memoria e nel nostro cuore quei sentimenti di infinita tristezza e profonda amarezza che dovranno spingerci a non incorrere negli stessi spietati errori del tempo passato.
In fondo siamo un po’ come un bambino che prova a muovere i suoi primi passi. Di sicuro quel bambino, come noi, sarà caduto moltissime volte, avrà commesso molti errori, ma alla fine ce l’ avrà fatta, avrà mosso i suoi primi passi, avrà iniziato a camminare. Così anche noi ragazzi di oggi dobbiamo ricordare come l’ umanità, pur essendo caduta innumerevoli volte, anche in modo fragoroso, sia sempre riuscita in un modo o nell’ altro a rialzarsi e a proseguire, con vari tentativi, verso quei tanto sperati primi passi.
Pare scontato dire che l’ uomo deve continuare a crescere partendo dal proprio passato, avendo la memoria di ciò che di più brutto e orribile ha macchiato la sue mani, lasciando segni indelebili nella coscienza di ognuno di noi; ma è proprio da queste cicatrici, anche molto recenti, che noi giovani dobbiamo partire per non incorrere più negli stessi errori che sono stati, e sono ancora oggi, le tragedie dei massacri, dei bombardamenti, delle guerre sante, degli attentati, delle deportazioni, degli abusi, dello schiavismo, delle discriminazioni, delle torture, frutto della corruzione dell’ animo umano, che a volte di umano non ha nulla.
Sono profondamente convinto che sulle spalle dei giovani sia presente un grande e grave peso di responsabilità che, con speranza, consapevolezza e memoria, deve servire per rendere il futuro diverso dal passato.

Non possiamo privarci del passato
Gamboni Andrea,
Anni 16, Classe III°S Liceo scientifico Tecnologico


Il passato non è solo quello che troviamo nei libri di storia, il passato è l’ insieme delle esperienze vissute fino ad ora, che ci rende le persone che siamo, il passato è qualcosa di cui non possiamo privarci e che ci aiuta a vivere per un futuro migliore. Ormai la vita dei giovani è concentrata sul “momento presente”, vedono la vita come qualcosa di sfuggente che non si può sprecare per ricordare cose e persone del passato ormai morte e sepolte. Tuttavia, il passato farà parte di loro e li aiuterà a non commettere “vecchi errori”. Ogni anno il 27 Gennaio, data in cui ricorre l’ anniversario della liberazione degli ebrei da “Auschwitz” da parte dei russi che fecero prigionieri i tedeschi presenti nel campo di concentramento, si celebra la giornata della memoria. Ripensare a quei momenti, per molta gente, è molto doloroso ma per altri, a volte anche per i giovani, è indifferente. Questo atteggiamento dipende, forse, dal fatto che nessuno di loro si è mai domandato che cosa avrebbe fatto se si fosse trovato in quella situazione, nei campi di concentramento, sotto costanti torture, perseguitato e ucciso solo perché giudicato inferiore. Oppure cosa avrebbe fatto se fosse stato un connazionale degli aguzzini, condividendo le loro idee e portando alla morte milioni di persone. Forse se queste domande sfiorassero le loro menti le cose, attualmente, sarebbero ben diverse e la memoria del passato verrebbe considerata come qualcosa di sacro da proteggere e da tramandare a tutte le generazioni che verranno e che vorranno ascoltare quello che la storia ha da raccontare. Ognuno ha la propria storia personale da portare sulle spalle e, bella o brutta che essa sia, ci differenzia dagli altri e ci rende ciò che siamo insieme alle nostre esperienze. Insieme ad essa, anche la storia dell’ umanità è parte di noi e può insegnarci a vivere più consapevolmente e responsabilmente il presente.

Il passato ci può salvare
Ferrari Valentina, Mandolini Eleonora
Anni 17, Classe III S, Liceo scientifico Tecnologico

Il presente è il risultato della storia, una successione di eventi che sono fondamentali per capire il presente. Come sostiene Hobsbawm ne “Il secolo breve” : “la maggior parte dei giovani è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico in cui essi vivono”, invece il ricordo è importante per non commettere gli stessi errori del passato.
La “Giornata della memoria” è stata istituita dal Parlamento italiano nel 2000 per ricordare le vittime delle persecuzioni fasciste e naziste. La data stabilita è l’anniversario della liberazione degli ebrei prigionieri nel campo di sterminio nazista di Auschwitz, il 27 gennaio 1945. In questa giornata si ricordano i sei milioni di ebrei che persero la vita nei campi di sterminio e tutte le vittime del fascismo e del nazismo. Non era mai capitata nella storia dell’umanità una catastrofe di tale portata provocata dagli umani. Complessivamente le vittime della seconda guerra mondiale sono 32 milioni tra cui venti milioni di civili compresi vecchi, donne e bambini.
Ciò che ci salva è il nostro passato, che ci racconta delle nostre storie e ci fa ragionare sugli errori commessi.

La memoria è la chiave della porta del futuro
Dario Cicchinelli
Anni 16, Classe III S, Liceo Scientifico Tecnologico

La storia ci fa vivere o rivivere molti momenti importanti, alcuni positivi altri meno, ma tutti fondamentali per capire ed interpretare il presente.
Non esiste una data da ricordare per ogni evento passato, ma il giorno della Memoria, che ricorre il 27 gennaio di ogni anno, è fondamentale per ricordare la Shoah, ma ci aiuta anche a ricordare tutte le atrocità e i soprusi vissuti dal mondo intero nel corso della storia.
In questa giornata ricordiamo gli ebrei, è vero, le loro lotte, paure e morti ma è un’ occasione adatta anche per riflettere su altre persecuzioni o guerre. In occasione di questa giornata si proiettano film e pellicole riguardanti “la Memoria”.
Ognuno di noi sceglie di vivere come meglio crede questa giornata, c’è chi preferisce ricordare in silenzio, chi la ignora completamente, e chi sceglie di parlarne e condividere il ricordo. Quest’ anno la nostra scuola ha invitato il signor Alberto Mieli che con grande coraggio, umiltà e fiducia nella vita, ci ha raccontato la sua storia, quello che i suoi occhi hanno visto, quello che il suo cuore ha provato nei campi di concentramento nazisti.
Questo articolo non vuole ricordare quello che succedeva, la barbara maniera in cui gli innocenti morivano di torture, stenti o sofferenze; vuole essere un elogio alla determinazione ed al coraggio di pochi, che sono rimasti in vita, nel raccontare e nel far emozionare gli altri raccontando le proprie esperienze.
La Colomba Antonietti, l’ Istituto superiore che frequento, ha organizzato con la collaborazione del signor Mieli una mattinata dedicata al tema del ricordo.
Filmati atroci, discussioni, immagini cruente, dibattiti, commozione e sdegno sono stati gli elementi caratterizzanti la “Nostra giornata del ricordo”.
Alcuni miei compagni ed io abbiamo letto articoli, racconti e testimonianze di reduci dai campi di concentramento.
Dire che è stato emozionante, toccante e commovente è dire poco. Siamo onorati di aver potuto vivere questa esperienza; certo non è stato facile leggere davanti a tanti compagni di scuola, davanti ai professori e soprattutto davanti al signor Mieli, ma è il minimo che io possa fare per onorare i caduti e i reduci di questa battaglia per la libertà, ma soprattutto per la vita.
Da parte mia è stato un gesto di gratitudine e di profondo rispetto per la loro sofferenza, dignità e coraggio.
Il nostro presente è caotico, in continua evoluzione, non c’è mai il tempo di fermarsi a riflettere, a pensare ed a meditare. Sono contento che almeno un giorno dell’ anno, il 27 gennaio, venga dedicato alla riflessione, al ricordo, al “non dimenticare”.
Se dimentichiamo non cresciamo, se non cresciamo torniamo indietro e rischiamo di commettere i tragici errori del passato.
La memoria è la chiave della porta del futuro.

Il Giorno della memoria.
Samantha Lo Verde
Anni 16, classe II S Liceo Scientifico Tecnologico

Il giorno della memoria è stato istituito nel 2000 dal Parlamento Italiano per ricordare le moltissime persone di religione ebraica che vennero assassinate dai nazisti nei campi di concentramento e di sterminio. La data prescelta è quella dell' anniversario della liberazione del campo di sterminio nazista di Auschwitz, il 27 gennaio 1945.
In quella giornata tutto il mondo si ferma per un minuto per ricordare quelle povere vittime, tutti quei bambini indifesi strappati dalle braccia delle proprie madri, le donne maltrattate ed umiliate e gli uomini privati del loro orgoglio.
Sono stati uccisi brutalmente nelle camere a gas o semplicemente con un colpo di pistola. Esseri umani che uccidono altri esseri umani, come fanno gli animali.
Gente comune, proprio come noi, strappate dalle loro case e private della propria vita.
Non riesco a capire il perché di questa strage, perché i nazisti uccisero tutte quelle persone.
Siamo tutti uguali, indipendentemente dal colore della pelle o dalla religione che pratichiamo. Non dovremmo farci la guerra a vicenda per queste divergenze. Tutti noi siamo liberi di scegliere come vivere la nostra vita, nessuno deve imporci di non farlo.
Come me molti altri continueranno a ricordare, non solo per evitare che ciò si ripeta, ma per ricordare l’orrore che noi stessi abbiamo provocato.




Istituto Colomba Antonietti 25 gennaio 2008
Sede Centrale
“ Solo una vera consapevolezza educa alla responsabilità morale per orientare le scelte più giuste per il futuro”. Joyce Lussu

MEMORIA
Il 25 gennaio 2008 il nostro Istituto ho ospitato la STORIA. Un piccolo, grandissimo UOMO ci ha onorati della sua presenza, condividendo con noi i suoi terribili ricordi.
Non era la prima volta che il sig.Alberto Mieli veniva a trovarci, ma anche chi lo aveva già ascoltato non ha potuto fare a meno di riprovare, identico, tutto l’orrore del primo istante. Il sig.Mieli è un sopravvissuto di Auschwitz e non è semplice stargli accanto, ascoltare le sue parole e i suoi silenzi.
Le sue memorie sono pietre, non usiamole per colpire, usiamole per costruire.

CONSAPEVOLEZZA
La consapevolezza si raggiunge attraverso l’esperienza diretta del conoscere.
Mi è sembrato opportuno, durante la commemorazione, ricordare che da tre anni molte delle nostre classi, sono state coinvolte nel progetto “Storia in Laboratorio” e un toccante intervento del Direttore dr.Massimo Coltrinari, con fermezza, ha incitato i giovani ad usare sempre la loro testa, a non farsi sedurre da falsi ideali, a non farsi strumentalizzare e non perdere di vista l’obiettivo: La Libertà’.

RESPONSABILITA’
Ultimo approdo, ma nuovo punto di partenza, è il senso di responsabilità.
Rendiamoci conto che ora, in qualche luogo sperduto del mondo, si consumano tragedie, si calpestano i diritti umani di chi, come il sig.Alberto Mieli, semplicemente, ha una sua fede, un suo credo politico, una sua visione della vita. Facciamo i conti con questo rischio che si annida nelle nostre case, ma soprattutto nei nostri cuori.
A questo punto una domanda: e i ragazzi?
Ecco un mosaico delle impressioni e riflessioni della classe I^ sez.T del Liceo Scientifico Tecnologico sulla “Giornata della Memoria”, sulla testimonianza di Alberto Mieli e sul valore della storia.

Contributi
Matteo Nisati
“La storia è una delle materie scolastiche fondamentali per gli studenti, in quanto ci trasforma negli uomini colti e sapienti che saremo domani.
Se ci ragioniamo sopra, comprendiamo che l’essere umano ha sempre avuto bisogno di raccontare la propria vita alle generazioni più giovani. […] comprendendo la storia, scopriremo il passato, il presente ed il futuro di noi stessi, paragonerei la storia ad un racconto eterno, che dona a chi legge la conoscenza e la consapevolezza.
Un uomo consapevole del proprio passato, saprà essere responsabile nella scelta delle sue azioni, rispettando gli altri”.

Gianluca Costantini
“Ogni anno c’è una data che ci aiuta a ricordare quanto le persone possano essere crudeli: ogni 27 gennaio ricordiamo la sofferenza di quelle persone innocenti “condannate dalle loro origini”, condannate ad essere torturate e private della loro dignità. Quest’anno il sig.Alberto Mieli, sopravvissuto ai campi di concentramento, ha deciso di venire a raccontare la sua storia nella nostra scuola. Quello che mi ha colpito in lui, è il suo coraggio, perché è molto difficile riuscire a testimoniare una storia così atroce”.

Alessio Parla
“[…] All’inizio ero andato a sentire Mieli pensando a tutt’altro, invece quando ha iniziato a raccontare quello che ha vissuto nel campo di concentramento, vedere le sue lacrime, mi è dispiaciuto molto ed ho cominciato ad ascoltare con molta attenzione.”

Giuliano Gostinfini
“[…] Mentre raccontava, Mieli piangeva sommessamente e aveva una voce tremula, per quanto quei ricordi gli facevano male. Sfortunatamente noi non potevamo fare nulla per alleviare il dolore del ricordo di ciò che è stato, però possiamo cercare di non ripetere mai più un orrore del genere.”

Marco Filippi
“[…] il momento che mi ha colpito di più è questo:
- alunno: Lei si ritiene fortunato ad essere vivo? –
- Mieli: Si… ma se mi chiedessero di riprovare quelle sofferenze preferirei la morte.

Chiara dell’Ampio
“[…] Nessuna parola può definire quanto è avvenuto. Si può solamente dire: - Scempio! –“

Matteo Pizzingrilli
“Il 25 gennaio 2008, grazie alla mia scuola, ho potuto partecipare ad uno degli incontri più interessanti ed affascinanti della mia vita: l’incontro con il sig.Mieli […] la sua è una storia che narra di madri e di figli separati con la forza, è una storia della quale nessuno avrebbe voluto far parte […] Nella II guerra mondiale le due maschere dell’uomo si sono rivelate. La parte negativa che, ovviamente, è rappresentata dai nazisti e quella positiva dai partigiani e da quelle famiglie che hanno salvato tante persone in difficoltà. Quando si pensa alla II guerra mondiale, si deve pensare anche a quei piccoli grandi eroi che hanno dato il loro aiuto correndo grandissimi rischi.
Credo che la cosa più importante da fare in questo momento sia raccontare al mondo e soprattutto ai ragazzi la vera storia, anche se sembra dura e cruda ma questo è essenziale, poiché i giovani non si illudano che non sia successo niente in quegli anni, perché si deve ricordare ciò che è stato.”


Scuola Media “G.Morandi
Roma

Quando qualcuno racconta la sua storia[2]
Giulia Marini
Classe III D
Scuola Media G.Morandi

Ciao, io sono Sara! Non sorprendetevi se scoprite che state ascoltando un…fantasma!! Sì, proprio così, un fantasma! Però dovete sapere, cari amici miei, che io un tempo ero una bambina proprio come tante.
La mia famiglia era composta da due genitori meravigliosi, da un fratello e da una sorella, Emanuele ed Hanna, che oggi hanno quasi ottant’anni.
Vivevamo ad Amsterdam e la nostra vita era semplice, ma serena. All’epoca dei fatti io avevo circa 7 anni. La nostra vita cambiò il 15 giugno del ’43, in piena Guerra Mondiale. Noi, come altre persone eravamo di religione ebraica e gli ebrei erano considerati una razza inferiore dai nazisti e dal loro capo Adolf Hitler. Improvvisamente ci erano stati negati tanti diritti: non potevamo più entrare in alcuni negozi, andare in piscina, al cinema, frequentare locali pubblici; se lo si faceva si veniva sgridati e malmenati. Ma la cosa che mi faceva più inquietare era quella di non poter liberamente professare la nostra religione.
Con il passare dei giorni la vita si fece ancora più complicata, ma il peggio doveva ancora arrivare…il 25 ottobre due ufficiali tedeschi entrarono in casa nostra, ci ordinarono di fare i bagagli e di seguirli.
Mio padre si ribellò, ma fu massacrato di botte. Ci caricarono su un treno merci; eravamo centinaia di persone! In quel tragitto interminabile mia madre perse la vita soffocata: ero disperata. Voi non sapete cosa significhi perdere la mamma a soli sette anni!! Dopo una settimana arrivammo nel più temuto campo di concentramento: Auschwitz.
All’entrata del campo c’era una grossa scritta: “IL LAVORO RENDE LIBERI”.
Io non sapevo cosa significasse perché ero ancora troppo piccola e certo non osavo chiederlo. Quando arrivammo alla piazzetta all’interno di Auschwitz, ci ordinarono di metterci sull’attenti, di gettare nel cesto, che si trovava al centro della piazza, tutte le cose che possedevamo ( a parte i vestiti che avevamo addosso). Una signora dietro di noi, che aveva in braccio un bimbo, tentò di scappare, ma un ufficiale tedesco la vide e la fucilò: anche il bimbo fu fucilato. A quella vista io scoppiai a piangere e il mio cuore si riempì di odio per le belve che uccidevano la povera gente in modo così spietato. Anche Hanna, mia sorella, scoppiò in lacrime, ma un ufficiale tedesco ci zittì. Ci furono minuti di silenzio, poi lo stesso ufficiale che aveva sparato alla donna e al suo bambino, cominciò, urlando, a dettare le regole del campo:
“Prima regola: la mattina sveglia alle cinque. Seconda: la sera si va a dormire alle undici. Terza: Bisogna obbedire ad ogni ordine. Quarta: a pranzo verranno “ servite” acqua e patate, a cena acqua e carote. La colazione si salta. Quinta: fate quello che diciamo noi, sporchi ebrei!”. Concluse così il suo elenco.
Come avrei voluto andare lì e dargli un bel pugno in faccia! Ci misero poi in baracche, chiamate blocchi, con ventiquattro letti ciascuna. Mia sorella capitò nella baracca vicino alla mia, mio padre e mio fratello furono mandati nel campo di fronte al nostro. Ogni letto era per due persone ed io stavo con una bimba di nome Imma. Aveva sette anni come me ed era simpatica. Parlammo per tutta la notte delle nostre famiglie e dell’inferno in cui ci trovavamo.
La mattina dopo ci vennero a svegliare all’alba. Ci diedero delle pale e ci ordinarono di scavare senza sosta, finché non dicevano loro di smettere. Poi, dopo circa mezz’ora, due ufficiali presero dieci anziani e dieci bambini e li portarono a fare “la doccia”. Imma mi sussurrò all’orecchio che quello era un modo per eliminare alcuni di noi. Io continuavo a non capire, ma Imma mi disse che i più deboli venivano eliminati in bagni speciali, con docce dalle quali, al posto dell’acqua, fuoriusciva un gas letale, chiamato Zilkon B. Si moriva soffocati in pochi minuti.
Il giorno dopo ci fecero entrare in un capanno, dove alcune donne tedesche ci rasarono i capelli e ci fecero indossare un vestito a righe bianche e blu. Poi ci tatuarono come cavalli, non con un disegno, ma con un numero; il mio era 1446410 . Ci portarono al centro del campo e due ufficiali ci ordinarono di andare a lavorare immediatamente. Quel pazzo sparò ad una ragazza che non era stata veloce nell’eseguire l’ordine. Io, mia sorella e Imma eravamo salve.
Era il quinto giorno della mia permanenza in quell’inferno e quello fu il peggiore. I tedeschi portarono a fare la doccia quaranta persone tra donne e bambini. Io rabbrividii perché tra quei bambini c’era anche Imma; io gridai, ma un ufficiale mi zittì puntandomi il fucile addosso. Quel giorno dovemmo stare un’ora sull’attenti. Circa un’ora dopo vidi un carretto passare davanti ai nostri occhi; sopra c’era Imma…la dolce Imma, la mia cara amica. Io scoppiai a piangere, mia sorella Hanna mi strinse forte a sé e rimanemmo in silenzio.
Erano passati due giorni dalla morte di Imma e io sentivo che le mie forze si stavano esaurendo. Per quanto avrei ancora resistito? Non lo sapevo. Quel giorno, al centro del campo l’appello durò più di quattro ore: in piedi, sull’attenti e sotto il sole.
Ormai erano due settimane che mi trovavo in quell’inferno quando arrivò una bambina di nome Odeth. Lei mi raccontò dei suoi genitori, Giacobbe e Maria, che erano morti all’inizio della guerra in un bombardamento e lei era rimasta sola. Il giorno dopo, mentre percorrevo il solito tratto di strada verso il centro del campo, mio fratello si avvicinò e mi sussurrò nell’orecchio che papà era morto. Scoppiai a piangere: oltre ad aver perso mia madre, adesso avevo perso anche mio padre. “ Quanto è brutta la vita “ pensai. Quella giornata passò bruciando i vestiti dei morti nelle docce. Fra questi trovai anche una piccola bambola di pezza e, guardandola, provai una fitta al cuore. Pensai alla bambina che l’aveva posseduta, abbracciata, toccata, baciata…La sera, quando mi misi a letto, Odeth si era già addormentata. Io invece non riuscivo a prendere sonno; infatti non chiusi occhio per tutta la notte.
Intanto i giorni passavano e ogni mattina all’appello vedevo gente nuova; molti invece sparivano! Mi chiedevo il perché di tanta spietatezza. Noi eravamo ebrei come altri erano cattolici, protestanti, ortodossi. Una notte feci un sogno…erano arrivati i Russi che ci avevano liberati. All’uscita del campo vidi i miei genitori che ci aspettavano. Ci abbracciammo e tutti e cinque andammo via raccontandoci le storie, come ai vecchi tempi. Era stato davvero bello il mio sogno e avrei voluto che continuasse, ma suonò la sirena del campo. Stava per iniziare l’appello. Io mi avvicinai ad Hanna e le sussurrai qualcosa nell’orecchio. L’ufficiale di turno mi vide e mi puntò addosso il fucile; questa volta sparò veramente. Caddi a terra e, prima di morire, sentii il grido di mia sorella. Poi vidi tutto bianco e, dietro una fitta nuvola, trovai i miei genitori che mi portarono via da quell’inferno che ci aveva strappati alla vita.


Testimonianze
Ludovica e Sara Ionà
Classe III D
Scuola Media G. Morandi

Nel mese di gennaio del 2008, a scuola, abbiamo avuto un incontro con uno dei pochi sopravvissuti allo sterminio nazista: Piero Terracina, il quale ci ha raccontato la sua esperienza allo scopo di trasmettere la memoria della più grande tragedia verificatasi nel secolo scorso, quella dei campi di concentramento. A tale riguardo abbiamo fatto anche una ricerca per approfondire l’argomento e l’abbiamo arricchita con la testimonianza di familiari coinvolti in episodi drammatici. Nel nostro caso abbiamo chiesto il contributo delle nonne che, sebbene all’epoca dei fatti fossero ancora bambine, sono riuscite a farci comprendere la difficoltà di vivere in quegli anni. Ci hanno raccontato che in ogni momento vivevano nel terrore dei bombardamenti, nella paura di dover lasciare la propria casa, nella difficoltà di ritrovarsi nei rifugi con i loro cari. Una di loro ci ha descritto un episodio accaduto una sera in cui era suonato l’allarme. La sua famiglia aspettava con ansia il papà che tornasse dal lavoro, per poi andare a rifugiarsi tutti insieme in un luogo sicuro, ma la sera il mio bisnonno tardò. Quelli che seguirono furono momenti interminabili che diedero ai bambini il senso vero della tragedia che si verificava quando un papà non ritornava a casa. Per fortuna tutto si risolse per il meglio, ma la paura di perdere i propri cari crebbe ogni giorno di più.
Un altro episodio, che ci è stato raccontato, ci insegna che il terrore non riguardava solo gli uomini, ma coinvolgeva anche gli animali. Una sera suonò l’allarme e la famiglia di nostra nonna in gran fretta andò nel solito rifugio, ma dimenticò di mettere al sicuro una gallina che avevano in casa. Quando il peggio fu passato, tornarono nella propria abitazione e trovarono l’animale, impaurito, dentro ad una credenza. Da quel giorno questo depose le uova senza il guscio. La paura della guerra non aveva risparmiato nessuno.


Testimonianze
Alice Manno
Classe III D
Scuola Media. G. Morandi


Sul palco dell’Aula Magna un tavolino, due sedie, il Preside e il nostro ospite: Piero Terracina. La sua lezione ha come intento quello di “fare memoria” di ciò che è accaduto, affinché non si ripetano gli errori e gli orrori del passato. Ci ha parlato delle leggi razziali, delle delazioni, della deportazione, dei suoi lutti, ma soprattutto della perdita della dignità durante la prigionia. Io mi chiedo cosa voglia dire tutto questo e poi capisco che perdere la dignità vuol dire anche essere privati del proprio nome ed essere marchiati come bestie, rischiando la vita ogni giorno. Lui si è salvato solo perché il desiderio di vivere non l’ha mai abbandonato. Ammiro molto quest’uomo che ha fatto della sua testimonianza una ragione di vita, nella speranza che noi giovani saremo in grado di trasmettere ad altri ciò che di terribile abbiamo ascoltato.

Testimonianze
Giulia Marini
Classe III D
Scuola Media. G. Morandi

Un episodio avvenuto durante la II guerra mondiale, che riguarda la mia famiglia, ha come protagonista uno zio di mio padre: Vincenzo Marini. Avvocato di successo nella Marsica, combatté con valore nella Campagna di Russia con il grado di Capitano. Gli Italiani, alleati con i tedeschi, erano rimasti isolati nel freddo dell’inverno russo ed assediati dall’esercito nemico. Lo zio, con astute strategie, riuscì a portare in salvo il suo reparto ed un reparto di soldati tedeschi. Ricevette per questo onorificenze, tra le quali la Croce di Ferro, il massimo riconoscimento militare tedesco. Dopo l’armistizio si schierò con i partigiani, diventando uno dei capi della Marsica. Per la sua attività anti-nazista fu condannato a morte dai tedeschi che cercavano di catturarlo. Durante la perquisizione nella sua casa di Tagliacozzo, i suoi genitori ed altri familiari furono minacciati, ma, per fortuna un soldato delle SS trovò sul comodino della camera da letto la Croce di Ferro. Il sergente ordinò ai suoi soldati di uscire e restituì quanto precedentemente sequestrato. L’onorificenza aveva salvato la vita ai parenti di mio zio, tra i quali c’era mio nonno ancora bambino.




[1] Professoressa, Coordinatrice del Progetto “Storia in Laboratorio”
[2] Scritto a nove anni dopo un viaggio ad Auschwitz