sabato 30 ottobre 2021
martedì 19 ottobre 2021
Alessia Biasiolo Il Centenario de "Il Vittoriale degli Italiani"
I
Premessa
L’occupazione militare
della città di Fiume, prima di pertinenza ungherese ed ora in balia dei
trattati di pace conclusivi della prima guerra mondiale, da parte di Gabriele
D’Annunzio e dei suoi seguaci, venne chiamata Impresa di Fiume, o Impresa
fiumana. Il Poeta venne seguito nell’azione da alcuni reparti del Regio
Esercito, soprattutto fanti, artiglieri e bersaglieri, circa 2500 persone,
detti poi Legionari. L’occupazione della città di Fiume durò quasi un anno e
mezzo e vide anche la nascita della “Reggenza Italiana del Carnaro”. Circa metà
della popolazione cittadina era di nazionalità e lingua italiane e alla fine
del conflitto si era già costituito un Consiglio Nazionale che voleva
l’annessione all’Italia, in realtà non prevista dal Patto di Londra, ma vigente
in nome del diritto dei popoli all’autodeterminazione; all’Italia, infatti, era
stata promessa la Dalmazia. Volontari a difesa della città si erano organizzati
già nell’aprile 1919, creando una Legione fiumana contro i francesi che erano
filo-iugoslavi, per l’annessione alla Iugoslavia della città. Infatti, in
giugno ci furono degli scontri con i militari francesi che, in spregio, avevano
strappato la coccarda italiana che le donne di Fiume si erano appuntate
all’abito, generando quelli che vennero nominati i “Vespri fiumani”, con morti
e feriti.
La Conferenza di Parigi
sciolse il Consiglio Nazionale Fiumano e chiese il ritiro dei soldati italiani,
creduti colpevoli degli episodi, ingiustamente. Una delegazione di fiumani
incontrò D’Annunzio chiedendogli di assumere la reggenza della città, mentre i
Granatieri di Sardegna vennero allontanati dalla stessa perché ritenuti troppi
indisciplinati; questi si acquartierarono a Ronchi dei Legionari. Saranno loro,
per questo poi detti Legionari, con a capo D’Annunzio e assieme ad altri
volontari, a marciare su Fiume, che il Vate dichiarò annessa all’Italia il 12
settembre 1919. I soldati inglesi e francesi di presidio non intervennero per
evitare lo scontro aperto, mentre i marinai della nave regia, ex incrociatore
Marco Polo, che arrivò a Fiume il 22 settembre, si unirono ai Legionari.
Il governo italiano
prese immediatamente le distanze dall’azione dannunziana, nominando commissario
straordinario Pietro Badoglio che, da Trieste, minacciava di considerare disertori
i militi in appoggio all’impresa, ma non ottenne alcun risultato, tanto che
Francesco Saverio Nitti, capo del Governo, ordinò l’assedio della città per
lasciarla senza viveri.
Il 20 settembre 1919
venne pubblicata su “Il Popolo d’Italia”, il giornale diretto da Mussolini, la
lettera che questi ricevette da D’Annunzio, in cui gli si rimproverava scarso
impegno politico nella vicenda, motivo poi dei dissapori mai risolti tra i due.
Infatti, sul giornale la lettera risultò mancante delle frasi più polemiche e
ingiuriose contro il nuovo capo dei Fasci di Combattimento. Mussolini avviò una
sottoscrizione pubblica che portò all’invio di varie trance di soldi a sostegno
dell’impresa. Il Governo italiano cercò, inutilmente, la soluzione diplomatica,
mentre D’Annunzio continuava ad avere sempre più seguito. Si arrivò al
plebiscito di annessione, ma anche a continue accese diatribe, fino allo stallo
politico. Il 12 agosto 1920, Gabriele D’Annunzio annunciò la Reggenza Italiana
del Carnaro: “Fondiamo in Fiume d’Italia, nella Marca Orientale d’Italia, lo
Stato Libero del Carnaro”. Si trattava di una reggenza con una costituzione
lungimirante e moderna.
L’impresa di Fiume si
innestava nella bufera sociale e politica italiana, nota come Biennio rosso,
tra tumulti, scioperi, occupazioni della fabbriche, seguiti alla crisi
economica e sociale del dopoguerra. Da Fiume c’era il rischio che seguissero
l’esempio altre persone, intenzionate a fare cadere il Governo italiano, al
quale, intanto, si erano alternati vari esponenti, tra una dimissione e
l’altra, mentre Fiume si organizzava nella vita quotidiana, stampando
francobolli e denaro.
Tornato al governo
Giovanni Giolitti nel giugno 1920, ben presto la “Reggenza Italiana del
Carnaro” venne sempre meno tollerata e l’atteggiamento nei suoi riguardi
diventò sempre più fermo e duro. Infine, il 12 novembre 1920, venne firmato il
Trattato di Rapallo tra Italia e Iugoslavia in cui si sanciva Fiume città
libera.
D’Annunzio non accettò
le clausole del Trattato e rispose con l’occupazione delle isole di Arbe e di
Veglia che venivano assegnate alla Iugoslavia dall’accordo. Con l’approvazione
da parte del Parlamento italiano del Trattato di Rapallo, il generale Enrico
Caviglia inviò un ultimatum a D’Annunzio intimandogli di lasciare la città, nel
frattempo circondata dalle truppe italiane. Il Vate rifiutò le clausole anche
dell’ultimatum e si preparò con i suoi uomini a dare battaglia. Le truppe
dell’esercito italiano attaccarono Fiume la vigilia di Natale (poi per questo
chiamato “Il Natale di sangue”), il 24 dicembre 1920. Per il giorno di Natale
venne concessa la tregua, per riprendere i combattimenti il 26 dicembre. La
nave “Andrea Doria” al largo di Fiume cannoneggiò la città e il Palazzo del
Governo; gli scontri continuarono fino al 29 successivo, mentre si cercavano le
trattative e D’Annunzio rassegnò le dimissioni dalla “Reggenza del Carnaro”;
firmò la resa il 31 dicembre e questo diede vita allo Stato libero di Fiume. I
Legionari lasciarono la città su appositi treni messi a disposizione dal Regno
italiano e Gabriele D’Annunzio lasciò Fiume il 18 gennaio seguente.
D’Annunzio a Gardone
Riviera
Deluso
dalla conclusione dell’impresa fiumana, Gabriele D’Annunzio affitta per 600
lire mensili, per un anno, una villa sul lago di Garda, a Gardone Riviera,
luogo ameno nel quale sarebbe stato riposante trascorrere un periodo di vita.
La “Villa
di Cargnacco” era appartenuta ad un illustre studioso d’arte, Henry Thode,
marito in prime nozze di Daniela Senta von Bülow, figlia di Cosima Liszt. La
prestigiosa dimora apparteneva al patrimonio di sequestri, da parte del Governo
italiano, di proprietà tedesche, come risarcimento dei danni della prima guerra
mondiale.
Nel giro di
alcuni mesi, precisamente il 31 ottobre del 1921, il Vate acquista la Villa,
che era stata soprannominata “Colonica”, per 130mila lire, alle quali se ne
aggiungeranno altrettante per comperare tutti i contenuti, cioè la biblioteca
di circa seimila volumi, un pianoforte Steinway appartenuto a Listz, mobili,
libri, fotografie e alcuni manoscritti di Wagner. D’Annunzio intende fare
ristrutturare la Villa, per toglierle quel carattere tedesco che, secondo lui,
vi aleggiava.
Nomina
direttore dei lavori l’architetto Gian Carlo Maroni di Arco che si mette
alacremente all’opera, divenendo il sovrintendente della “Santa Fabbrica del
Vittoriale”. Naturalmente quella che diventava la sua vera dimora non poteva
non essere carica di significati per il Poeta, e infatti D’Annunzio la nomina
baluardo della Patria nei pressi del confine austriaco, ad intendere ancora la
questione della “vittoria mutilata” irrisolta.
Sul finire
del 1921 un numero speciale di “Illustrazione italiana” pubblica, a firma del
Vate, “Il Palladio del Garda”. La Villa sarà luogo di incontri mondani,
avventure (come quella che vuole D’Annunzio caduto, forse, da una finestra
della casa nell’agosto 1922, casa che verrà chiamata “Prioria”, uno degli
innumerevoli riferimenti francescani voluti dal Poeta) e incontri politici
decisivi per quel momento storico. Intanto la spettacolare abitazione si
arricchisce di animali in oro e argento dello scultore Renato Brozzi e un
boschetto di magnolie viene chiamato per la prima volta “Il Vittoriale” nel
maggio 1923, nome poi passato a tutto il complesso, com’è conosciuto ancora
oggi.
Nel
giardino D’Annunzio farà porre numerosi ricordi della guerra da poco trascorsa
(i massi di guerra Adamello, Sabotino, Pasubio, San Michele, Grappa) e dei suoi
caduti, per omaggiarli e testimoniare come nel suo cuore fossero ancora vivi.
Il 22
dicembre 1923, ci sarà l’atto di donazione ufficiale de “Il Vittoriale” al
“popolo italiano”. “Il Vittoriale” si arricchirà sempre più di oggetti e
cimeli, come lo SVA del volo su Vienna, il MAS (cioè il Motoscafo Anti
Sommergibile, ma che D’Annunzio chiamerà “Memento Audere Semper”) con il quale
il Poeta aveva compiuto la “Beffa di Buccari” nel 1918; la prua della
nave “Puglia”, in memoria del capitano Gulli ferito a morte nelle acque di
Spalato il 10 luglio 1920, che viene collocata sul promontorio chiamato la “Fida”.
Nell’estate
del 1924, Gabriele D’Annunzio acquista anche “Villa Mirabella”, adiacente alla
“Prioria”, dove ospiterà la moglie Maria Hardouin che, alla morte, verrà
seppellita nel giardino de “Il Vittoriale”.
Nel 1925 il
Poeta decide che la “Prioria” deve diventare come un palazzotto
aretino del Podestà, cioè tempestato di pietre in ordine simmetrico. Nella
primavera del 1925 verrà acquistata la “Torre-Darsena” e verrà sistemato il
portico antistante i giardini, chiamato “Portico del Parente”, dedicato a
Michelangelo e decorato da Guido Marussig. Si susseguiranno acquisti di
proprietà adiacenti in modo da non avere importune vicinanze. Le stanze de “Il Vittoriale”
si arricchiscono di cimeli, tavoli, scaffali, vetri di Murano, stoffe e tappeti
pregiati, strumenti musicali, statue, tutto accuratamente selezionato e al
quale viene assegnato un determinato significato.
Nei
giardini, nel settembre del 1927, viene messa in scena l’opera “La figlia di
Iorio” e D’Annunzio inizia a pensare alla realizzazione del “Parlaggio”,
un grande teatro. Dopo tre anni di lavori, nel 1929, viene ultimata la sala da
pranzo detta “Stanza della Cheli”, dalla tartaruga in bronzo di Renato
Brozzi che è stata posta a capotavola; la stanza serviva da congiunzione tra la
“Prioria” e lo “Schifamondo” e, secondo il proprietario, era l’unica non
triste di tutto il fabbricato. I lavori per lo “Schifamondo”, la nuova
casa del Poeta, proseguono, ma intanto viene ultimata la “Stanza delle Reliquie”
con i simulacri di tutte le religioni.
Nel 1931,
l’architetto Maroni chiede la collaborazione di Giò Ponti per il rifacimento di
bagni e cucina della “Prioria”. Viene progettato anche un “Museo di guerra”,
una “Sala d’Estremo Oriente” e un giardino pensile; poi verranno iniziati i
lavori per una “Piazza dei Caduti” di Gardone, per armonizzare l’ambiente con
il paese.
Nasce nel
1937 la “Fondazione Il Vittoriale degli Italiani” di cui sovrintendente sarà
Gian Carlo Maroni.
Gabriele
D’Annunzio morirà il primo marzo 1938, per emorragia cerebrale, al tavolo della
sua “Zambracca”, la stanza che fungeva da studio privato. Verrà sepolto nel
mausoleo che Maroni ultimerà, accanto ad alcuni Legionari fiumani.
“Il Vittoriale” e la politica italiana dal 1921
Cent’anni
fa si ponevano le basi politiche per il periodo storico italiano che chiamiamo
il Ventennio.
Verso la
fine del 1920, Mussolini si trovava a capo di un movimento che aveva ottenuto
grandi successi. Si era inserito, infatti, nel discorso politico giolittiano,
sfruttando, tra l’altro, la conclusione della questione di Fiume e quella che
sembrava la fine della parabola politica dannunziana. E vantava il grande
consenso del fascismo agrario, dimostrandosi la giusta forza politica in grado
di raccogliere la fine della protesta dei partiti “rossi”, per porsi come
capace di catalizzare l’attenzione dei borghesi, degli imprenditori agricoli e
industriali.
Un lavoro
che doveva essere svolto nel 1921, quando i Fasci di Combattimento contavano
quasi tanti iscritti quanto gli adepti comunisti al Congresso di Livorno.
I fascisti
continuavano a manifestarsi attaccati alla patria e alla volontà di difenderne
i confini, rivendicando la vittoria bellica, anche se lo scivolone del mancato
appoggio alla questione di Fiume, dopo il Trattato di Rapallo e il “Natale di
sangue”, aveva fatto venire alcuni dubbi.
Tra le varie
necessità mussoliniane, compresa quella di tenere a bada il fascismo
squadrista, c’era evitare la rottura con i fascisti dannunziani che ancora
rimproveravano proprio l’atteggiamento tenuto durante il triste Natale
precedente, quando non si era mosso un dito per aiutare D’Annunzio a Fiume.
Anzi, i fascisti più interventisti erano stati tenuti a freno e quelli più
nazionalisti incolpavano la monarchia di avere ceduto con la firma dei
trattati, chiedendo a Mussolini un’azione più in chiave repubblicana, con i
principi della “Carta del Quarnaro”. A quel punto, con la pessima figura
monarchica nella questione fiumana, i Legionari e i fascisti filo dannunziani
ancora inviperiti, si era davanti ad un’evidenza. Se D’Annunzio, andando al
Congresso di Milano, avesse radunato attorno a sé i suoi sostenitori,
probabilmente il capo del movimento non sarebbe più stato Mussolini, oppure
avrebbe potuto dividere con lui la direzione dei Fasci di Combattimento.
Benito
Mussolini il 5 aprile 1921 si recò in visita a Gabriele D’Annunzio nella sua
villa di Gardone Riviera. La notizia venne anche riportata su “Il Popolo
d’Italia”, scrivendo che i due avrebbero discusso della situazione politica,
gettando le basi per degli accordi. D’Annunzio non pensava di candidarsi alle
elezioni politiche e molti fiumani non sarebbero entrati nei Blocchi nazionali,
pertanto nessun accordo venne raggiunto, anche se a Mussolini avrebbe fatto di
sicuro molto comodo. Il 7 aprile, infatti, D’Annunzio scriveva che Mussolini
avrebbe fatto suo il programma politico dannunziano già letto a Fiume, una
rassicurazione che avrebbe portato a consigliare ad alcuni Legionari di
candidarsi o di non ostacolare la candidatura dei Fasci, ma di certo non era
chiaro che si fosse sottoscritto un vero e proprio accordo. Molto più
probabilmente entrambi gli uomini non volevano arrivare ad una rottura, ma non
si fidavano troppo l’uno dell’altro, per lo meno sul piano politico.
Un altro
incontro con Mussolini era previsto a “Il Vittoriale” il 15 agosto 1922, due giorni dopo il misterioso incidente
occorso al Vate, probabilmente caduto da una finestra di casa sua; quindi il
futuro Duce, il 28 ottobre seguente, giorno della marcia su Roma, inviò a
D’Annunzio, ancora convalescente, un telegramma nel quale gli chiedeva di non
dimostrarsi contrario ad un episodio del quale era stato ideatore già qualche
anno prima. Di non mettere contro l’azione la gioventù che lo seguiva.
Il 14 marzo
1924, in occasione dell’annessione di Fiume all’Italia, il Re concesse a
D’Annunzio il titolo di Principe di Montenevoso. Il 1924 sarà un anno di gravi
accadimenti: in aprile morirà a Pittsburg Eleonora Duse, la Musa del Poeta, e
pochi mesi dopo accadrà il rapimento e l’assassinio di Giacomo Matteotti, fatto
definito da D’Annunzio una “fetida ruina”.
Il 25 marzo
1925, il Vate chiese al capo del Governo Mussolini l’appoggio per la
costruzione del “Meandro del Benaco”, una strada litoranea che avrebbe permesso
di congiungere la Venezia tridentina liberata con la regione lombarda, veneta,
padana ed emiliana, come dalle sue intenzioni.
Due mesi
dopo, una nuova visita di Benito Mussolini a D’Annunzio presso “Il Vittoriale”,
il 25 maggio 1925, e i due solcheranno il lago a bordo del MAS. Un incontro
cordiale, filmato da “Luce”, si avrà a “Il Vittoriale” tra i due uomini anche
nel settembre del 1934.
L’attività
di scrittore di D’Annunzio non si ferma, mentre segue la sistemazione della sua
prestigiosa e sontuosa dimora. Vengono date alle stampe opere come “Il libro
ascetico della giovane Italia”, “Faville del maglio”, “Cento e cento e cento e
cento pagine del Libro Segreto di Gabriele D’Annunzio tentato di morire”.
Nel 1936,
l’architetto Maroni si reca a Pescara per iniziare il lavoro di restauro della
casa natale del Poeta.
Il 30
settembre 1937 il Vate incontra Mussolini alla stazione di Verona, al rientro
di questi dal primo viaggio in Germania: sembra che il Duce, al massimo della
sua gloria politica, non fosse molto propenso a dedicarsi alla conversazione
con lui, che appare già di salute non più brillante. Alla morte del Poeta,
Benito Mussolini presenzierà ai funerali, con il volto mesto, ma senza
pronunciare parola. Riconosceva a D’Annunzio molte forme del fascismo.
Un’altra
visita di Mussolini a “Il Vittoriale” si avrà in occasione della sua permanenza
al lago di Garda, durante gli ultimi giorni della Repubblica di Salò, il primo
marzo 1945, per la commemorazione della nascita di D’Annunzio. Lo ricorderà
come colui che aveva celebrato le virtù della razza italica e che incitava,
anche in quel momento, alla lotta con l’alleato germanico.
Conclusione
“Il Vittoriale degli
Italiani” è un luogo unico nel suo genere sia per gli studiosi che per gli
amanti dei giardini, sia per i turisti in genere che per chi ama il teatro. Il
“Parlaggio” è stato inaugurato rivestito di marmo, come avrebbe voluto
D’Annunzio in vita, nel 2020 e ospita ogni anno eventi che fanno onore al
padrone di casa. Lo scenario del lago di Garda che si ammira dalla dimora del
Vate è un angolo di paradiso indimenticabile di cui quest’anno si celebra il
centenario.
Alessia Biasiolo
sabato 9 ottobre 2021
La battaglia del MOnte Mrzli 2 giugno 1915
Maria
Luisa Suprani Querzoli
Il
Generale De Rossi e la Battaglia del Monte Mrzli (2 giugno 1915)
Al Generale Eugenio De Rossi si deve la conoscenza
dell’ambiente militare durante l’Età Umbertina: la sua autobiografia, infatti,
accanto ai profili di figure divenute poi celebri, si sofferma ampiamente su
fragilità e virtù che connotarono il mondo militare (italiano e straniero) a
cavallo fra Ottocento e Novecento. Il suo si rivela quindi un contributo
indispensabile per comprendere l’assetto mentale, morale e professionale, dell’Italia
prossima ad entrare in guerra.
De Rossi, ad un certo punto della
carriera, approdò felicemente fra i Bersaglieri: il suo dinamismo (provetto
ciclista) e la capacità di coinvolgere con l’esempio i propri sottoposti denotavano
in lui una rara sinergia fra equilibrio ed entusiasmo. Anche alla sua opera di
intelligence l’Esercito dovette molto[1].
La grave ferita riportata durante
le primissime azioni di guerra lo rese invalido, determinando così per lui la
fine della partecipazione attiva al conflitto.
Varrà la pena riportare per esteso
la descrizione del momento drammatico in cui De Rossi rimase colpito per poi
concludere con alcune brevi riflessioni:
Tornai tra i miei bersaglieri, dissi brevemente essere venuta l’ora della
prova, quella che il destino ha fissato per ognuno. Mi volsi poi a don Gilardi
e lo invitai a far atto del suo ministero per i credenti e i miscredenti. […] I
volti gravi ma fermi, la fierezza con la quale si drizzarono dopo l’assoluzione
in articulo mortis mi dette la
sicurezza della loro intrepida risoluzione. Avviai la pattuglia ufficiali, la
compagnia di avanguardia e con essa mi incamminai.
Posi sul cappello l’aigrette bianca
da colonnello: aveva brillato alla parete, si mostrasse ora al combattimento.
[…] Superammo altri 300 metri di dislivello. Tutto il mio essere era teso vero
l’imminente scoppiar della fucilata, poiché il nemico non poteva tardare farsi vivo. […] Feci dare il segnale di
allungare il tiro, ma non fu compreso, o compreso alla rovescia, perché invece
cessò improvvisamente […]. [I]l silenzio dei nostri pezzi fu immediatamente
seguito dal crepitare della fucileria nemica e dall’abbaiare delle
mitragliatrici, entrate in azione furiosamente. Ma la truppa stette salda
attorno agli ufficiali e continuò poi l’ascesa sotto la raffica mortale,
accorrendo alla mia voce che incitava e chiamava superando, stentorea come poi
mi dissero, il fragore degli spari.[2]
Una constatazione prima di proseguire nel racconto: l’impiego
delle artiglierie in affiatamento con il procedere delle truppe si dimostra fin
da subito un punto di grave fragilità. L’esempio di compensazione morale alle
manchevolezze di ordine tecnico è encomiabile. La narrazione di quel momento
terribile gravido di molte perdite è particolarmente efficace: la si riprenderà
dal momento in cui le cose, per De Rossi, precipiteranno.
Conclusione: un attacco frontale oltre che sanguinosissimo non
condurrebbe ad alcun risultato, perché sarebbe impossibile rimanere sulla
posizione conquistata, dominata completamente dallo Sleme; conviene perciò
attendere che cominci l’azione che, per l’alto, doveva svolgere la colonna di
fanteria ed artiglieria da montagna verso lo Sleme stesso, per il momento
concorrervi dimostrativamente. Spiegai questa decisione ai miei ufficiali.
Insistendo particolarmente con Negrotto della necessità della sosta, parve
persuaso. Lasciai la linea di fuoco per
scendere ad una cinquantina di metri, in un punto donde si scorgeva il terreno
che avrebbe dovuto percorrere la colonna aggirante e vedere altresì l’arrivo
dei battaglioni chiamati in rinforzo […]. Non erano trascorsi dieci minuti che
scoppiò vivacissimo il fuoco sul fronte, seguito dal grido di «Savoia!».
Era
Negrotto che preso, suppongo, da un accesso di pazzia guerriera, volendo,
ritengo, coprirsi di gloria e dimostrare che la baionetta è ancora oggi la
regina della battaglia aveva ad un tratto ordinato il fuoco celere e senza dar
tempo neppure a quel mezzo di agire, era partito all’attacco con il cappello sulla
sciabola, seguìto dal suo battaglione. Quei valorosi non avevano toccato il
fondo della dolina che già venivano falciati a mucchi: il resto dava indietro,
sulla posizione di partenza.
Esasperato
per la inutile e aperta disubbidienza, presi velocemente a salire sulla linea
di fuoco e dimentico di ogni precauzione mi ingolfai in una zona battuta da
mitragliatrici nemiche. Il cappellano mi avvisò del pericolo e mentre mi
volgevo verso di lui per rassicurarlo, ebbi la sensazione di ricevere un forte
pugno sul fianco destro. Subito le gambe mi si piegarono sotto.[3]
Volutamente non ci si soffermerà sulla gravità della ferita e
sull’azione tanto ingenua quanto sconsiderata del Negrotto, né sull’agonia di
quest’ultimo e sulle condizioni miserevoli in cui si trovò De Rossi, dato per
spacciato. Sarà opportuno scorgere invece in questo frammento durissimo della
Grande Guerra il passaggio storico fra il clima morale delle Guerre
Risorgimentali e le istanze feroci e sconosciute poste dalla tecnologia, capaci
di riformulare interamente le dinamiche del conflitto.