1866 QUATTRO BATTAGLIE PER IL VENETO

1866 QUATTRO BATTAGLIE PER IL VENETO
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1866 Il Combattimento di Londrone

ORDINE MILITARE D'ITALIA

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CAVALIERE DI GRAN CROCE

Collana Storia in Laboratorio

Il piano editoriale per il 1917 è pubblicato con post in data 12 novembre 2016

Per i volumi pubblicati accedere al catalogo della Società Editrice Nuova Cultura con il seguente percorso:
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.La collana Storia in Laboratorio 31 dicembre 2014

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Testo Progetto Storia In Laboratorio

Il testo completo del Progetto Storia in Laboratorio è riportato su questo blog alla data del 10 gennaio 2009.

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La Collana Storia in Laboratorio al 31 dicembre 2011

La Collana Storia in Laboratorio al 31 dicembre 2011
Direttore della Collana: Massimo Coltrinari. (massimo.coltrinari@libero.it)
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martedì 19 ottobre 2021

Alessia Biasiolo Il Centenario de "Il Vittoriale degli Italiani"

 

I


 

Premessa

L’occupazione militare della città di Fiume, prima di pertinenza ungherese ed ora in balia dei trattati di pace conclusivi della prima guerra mondiale, da parte di Gabriele D’Annunzio e dei suoi seguaci, venne chiamata Impresa di Fiume, o Impresa fiumana. Il Poeta venne seguito nell’azione da alcuni reparti del Regio Esercito, soprattutto fanti, artiglieri e bersaglieri, circa 2500 persone, detti poi Legionari. L’occupazione della città di Fiume durò quasi un anno e mezzo e vide anche la nascita della “Reggenza Italiana del Carnaro”. Circa metà della popolazione cittadina era di nazionalità e lingua italiane e alla fine del conflitto si era già costituito un Consiglio Nazionale che voleva l’annessione all’Italia, in realtà non prevista dal Patto di Londra, ma vigente in nome del diritto dei popoli all’autodeterminazione; all’Italia, infatti, era stata promessa la Dalmazia. Volontari a difesa della città si erano organizzati già nell’aprile 1919, creando una Legione fiumana contro i francesi che erano filo-iugoslavi, per l’annessione alla Iugoslavia della città. Infatti, in giugno ci furono degli scontri con i militari francesi che, in spregio, avevano strappato la coccarda italiana che le donne di Fiume si erano appuntate all’abito, generando quelli che vennero nominati i “Vespri fiumani”, con morti e feriti.

La Conferenza di Parigi sciolse il Consiglio Nazionale Fiumano e chiese il ritiro dei soldati italiani, creduti colpevoli degli episodi, ingiustamente. Una delegazione di fiumani incontrò D’Annunzio chiedendogli di assumere la reggenza della città, mentre i Granatieri di Sardegna vennero allontanati dalla stessa perché ritenuti troppi indisciplinati; questi si acquartierarono a Ronchi dei Legionari. Saranno loro, per questo poi detti Legionari, con a capo D’Annunzio e assieme ad altri volontari, a marciare su Fiume, che il Vate dichiarò annessa all’Italia il 12 settembre 1919. I soldati inglesi e francesi di presidio non intervennero per evitare lo scontro aperto, mentre i marinai della nave regia, ex incrociatore Marco Polo, che arrivò a Fiume il 22 settembre, si unirono ai Legionari.

Il governo italiano prese immediatamente le distanze dall’azione dannunziana, nominando commissario straordinario Pietro Badoglio che, da Trieste, minacciava di considerare disertori i militi in appoggio all’impresa, ma non ottenne alcun risultato, tanto che Francesco Saverio Nitti, capo del Governo, ordinò l’assedio della città per lasciarla senza viveri.

Il 20 settembre 1919 venne pubblicata su “Il Popolo d’Italia”, il giornale diretto da Mussolini, la lettera che questi ricevette da D’Annunzio, in cui gli si rimproverava scarso impegno politico nella vicenda, motivo poi dei dissapori mai risolti tra i due. Infatti, sul giornale la lettera risultò mancante delle frasi più polemiche e ingiuriose contro il nuovo capo dei Fasci di Combattimento. Mussolini avviò una sottoscrizione pubblica che portò all’invio di varie trance di soldi a sostegno dell’impresa. Il Governo italiano cercò, inutilmente, la soluzione diplomatica, mentre D’Annunzio continuava ad avere sempre più seguito. Si arrivò al plebiscito di annessione, ma anche a continue accese diatribe, fino allo stallo politico. Il 12 agosto 1920, Gabriele D’Annunzio annunciò la Reggenza Italiana del Carnaro: “Fondiamo in Fiume d’Italia, nella Marca Orientale d’Italia, lo Stato Libero del Carnaro”. Si trattava di una reggenza con una costituzione lungimirante e moderna.

L’impresa di Fiume si innestava nella bufera sociale e politica italiana, nota come Biennio rosso, tra tumulti, scioperi, occupazioni della fabbriche, seguiti alla crisi economica e sociale del dopoguerra. Da Fiume c’era il rischio che seguissero l’esempio altre persone, intenzionate a fare cadere il Governo italiano, al quale, intanto, si erano alternati vari esponenti, tra una dimissione e l’altra, mentre Fiume si organizzava nella vita quotidiana, stampando francobolli e denaro.

Tornato al governo Giovanni Giolitti nel giugno 1920, ben presto la “Reggenza Italiana del Carnaro” venne sempre meno tollerata e l’atteggiamento nei suoi riguardi diventò sempre più fermo e duro. Infine, il 12 novembre 1920, venne firmato il Trattato di Rapallo tra Italia e Iugoslavia in cui si sanciva Fiume città libera.

D’Annunzio non accettò le clausole del Trattato e rispose con l’occupazione delle isole di Arbe e di Veglia che venivano assegnate alla Iugoslavia dall’accordo. Con l’approvazione da parte del Parlamento italiano del Trattato di Rapallo, il generale Enrico Caviglia inviò un ultimatum a D’Annunzio intimandogli di lasciare la città, nel frattempo circondata dalle truppe italiane. Il Vate rifiutò le clausole anche dell’ultimatum e si preparò con i suoi uomini a dare battaglia. Le truppe dell’esercito italiano attaccarono Fiume la vigilia di Natale (poi per questo chiamato “Il Natale di sangue”), il 24 dicembre 1920. Per il giorno di Natale venne concessa la tregua, per riprendere i combattimenti il 26 dicembre. La nave “Andrea Doria” al largo di Fiume cannoneggiò la città e il Palazzo del Governo; gli scontri continuarono fino al 29 successivo, mentre si cercavano le trattative e D’Annunzio rassegnò le dimissioni dalla “Reggenza del Carnaro”; firmò la resa il 31 dicembre e questo diede vita allo Stato libero di Fiume. I Legionari lasciarono la città su appositi treni messi a disposizione dal Regno italiano e Gabriele D’Annunzio lasciò Fiume il 18 gennaio seguente.

 

D’Annunzio a Gardone Riviera

Deluso dalla conclusione dell’impresa fiumana, Gabriele D’Annunzio affitta per 600 lire mensili, per un anno, una villa sul lago di Garda, a Gardone Riviera, luogo ameno nel quale sarebbe stato riposante trascorrere un periodo di vita.

La “Villa di Cargnacco” era appartenuta ad un illustre studioso d’arte, Henry Thode, marito in prime nozze di Daniela Senta von Bülow, figlia di Cosima Liszt. La prestigiosa dimora apparteneva al patrimonio di sequestri, da parte del Governo italiano, di proprietà tedesche, come risarcimento dei danni della prima guerra mondiale.

Nel giro di alcuni mesi, precisamente il 31 ottobre del 1921, il Vate acquista la Villa, che era stata soprannominata “Colonica”, per 130mila lire, alle quali se ne aggiungeranno altrettante per comperare tutti i contenuti, cioè la biblioteca di circa seimila volumi, un pianoforte Steinway appartenuto a Listz, mobili, libri, fotografie e alcuni manoscritti di Wagner. D’Annunzio intende fare ristrutturare la Villa, per toglierle quel carattere tedesco che, secondo lui, vi aleggiava.

Nomina direttore dei lavori l’architetto Gian Carlo Maroni di Arco che si mette alacremente all’opera, divenendo il sovrintendente della “Santa Fabbrica del Vittoriale”. Naturalmente quella che diventava la sua vera dimora non poteva non essere carica di significati per il Poeta, e infatti D’Annunzio la nomina baluardo della Patria nei pressi del confine austriaco, ad intendere ancora la questione della “vittoria mutilata” irrisolta.

Sul finire del 1921 un numero speciale di “Illustrazione italiana” pubblica, a firma del Vate, “Il Palladio del Garda”. La Villa sarà luogo di incontri mondani, avventure (come quella che vuole D’Annunzio caduto, forse, da una finestra della casa nell’agosto 1922, casa che verrà chiamata “Prioria”, uno degli innumerevoli riferimenti francescani voluti dal Poeta) e incontri politici decisivi per quel momento storico. Intanto la spettacolare abitazione si arricchisce di animali in oro e argento dello scultore Renato Brozzi e un boschetto di magnolie viene chiamato per la prima volta “Il Vittoriale” nel maggio 1923, nome poi passato a tutto il complesso, com’è conosciuto ancora oggi.

Nel giardino D’Annunzio farà porre numerosi ricordi della guerra da poco trascorsa (i massi di guerra Adamello, Sabotino, Pasubio, San Michele, Grappa) e dei suoi caduti, per omaggiarli e testimoniare come nel suo cuore fossero ancora vivi.

Il 22 dicembre 1923, ci sarà l’atto di donazione ufficiale de “Il Vittoriale” al “popolo italiano”. “Il Vittoriale” si arricchirà sempre più di oggetti e cimeli, come lo SVA del volo su Vienna, il MAS (cioè il Motoscafo Anti Sommergibile, ma che D’Annunzio chiamerà “Memento Audere Semper”) con il quale il Poeta aveva compiuto la “Beffa di Buccari nel 1918; la prua della nave “Puglia”, in memoria del capitano Gulli ferito a morte nelle acque di Spalato il 10 luglio 1920, che viene collocata sul promontorio chiamato la “Fida”.

Nell’estate del 1924, Gabriele D’Annunzio acquista anche “Villa Mirabella”, adiacente alla “Prioria”, dove ospiterà la moglie Maria Hardouin che, alla morte, verrà seppellita nel giardino de “Il Vittoriale”.

Nel 1925 il Poeta decide che la Prioria” deve diventare come un palazzotto aretino del Podestà, cioè tempestato di pietre in ordine simmetrico. Nella primavera del 1925 verrà acquistata la “Torre-Darsena” e verrà sistemato il portico antistante i giardini, chiamato “Portico del Parente”, dedicato a Michelangelo e decorato da Guido Marussig. Si susseguiranno acquisti di proprietà adiacenti in modo da non avere importune vicinanze. Le stanze de “Il Vittoriale” si arricchiscono di cimeli, tavoli, scaffali, vetri di Murano, stoffe e tappeti pregiati, strumenti musicali, statue, tutto accuratamente selezionato e al quale viene assegnato un determinato significato.

Nei giardini, nel settembre del 1927, viene messa in scena l’opera “La figlia di Iorioe D’Annunzio inizia a pensare alla realizzazione del “Parlaggio, un grande teatro. Dopo tre anni di lavori, nel 1929, viene ultimata la sala da pranzo detta “Stanza della Cheli, dalla tartaruga in bronzo di Renato Brozzi che è stata posta a capotavola; la stanza serviva da congiunzione tra la “Prioria” e lo “Schifamondo e, secondo il proprietario, era l’unica non triste di tutto il fabbricato. I lavori per lo “Schifamondo, la nuova casa del Poeta, proseguono, ma intanto viene ultimata la “Stanza delle Reliquie con i simulacri di tutte le religioni.

Nel 1931, l’architetto Maroni chiede la collaborazione di Giò Ponti per il rifacimento di bagni e cucina della “Prioria”. Viene progettato anche un “Museo di guerra”, una “Sala d’Estremo Oriente” e un giardino pensile; poi verranno iniziati i lavori per una “Piazza dei Caduti” di Gardone, per armonizzare l’ambiente con il paese.

Nasce nel 1937 la “Fondazione Il Vittoriale degli Italiani” di cui sovrintendente sarà Gian Carlo Maroni.

Gabriele D’Annunzio morirà il primo marzo 1938, per emorragia cerebrale, al tavolo della sua “Zambracca”, la stanza che fungeva da studio privato. Verrà sepolto nel mausoleo che Maroni ultimerà, accanto ad alcuni Legionari fiumani.

 

“Il Vittoriale” e la politica italiana dal 1921

Cent’anni fa si ponevano le basi politiche per il periodo storico italiano che chiamiamo il Ventennio.

Verso la fine del 1920, Mussolini si trovava a capo di un movimento che aveva ottenuto grandi successi. Si era inserito, infatti, nel discorso politico giolittiano, sfruttando, tra l’altro, la conclusione della questione di Fiume e quella che sembrava la fine della parabola politica dannunziana. E vantava il grande consenso del fascismo agrario, dimostrandosi la giusta forza politica in grado di raccogliere la fine della protesta dei partiti “rossi”, per porsi come capace di catalizzare l’attenzione dei borghesi, degli imprenditori agricoli e industriali.

Un lavoro che doveva essere svolto nel 1921, quando i Fasci di Combattimento contavano quasi tanti iscritti quanto gli adepti comunisti al Congresso di Livorno.

I fascisti continuavano a manifestarsi attaccati alla patria e alla volontà di difenderne i confini, rivendicando la vittoria bellica, anche se lo scivolone del mancato appoggio alla questione di Fiume, dopo il Trattato di Rapallo e il “Natale di sangue”, aveva fatto venire alcuni dubbi.

Tra le varie necessità mussoliniane, compresa quella di tenere a bada il fascismo squadrista, c’era evitare la rottura con i fascisti dannunziani che ancora rimproveravano proprio l’atteggiamento tenuto durante il triste Natale precedente, quando non si era mosso un dito per aiutare D’Annunzio a Fiume. Anzi, i fascisti più interventisti erano stati tenuti a freno e quelli più nazionalisti incolpavano la monarchia di avere ceduto con la firma dei trattati, chiedendo a Mussolini un’azione più in chiave repubblicana, con i principi della “Carta del Quarnaro”. A quel punto, con la pessima figura monarchica nella questione fiumana, i Legionari e i fascisti filo dannunziani ancora inviperiti, si era davanti ad un’evidenza. Se D’Annunzio, andando al Congresso di Milano, avesse radunato attorno a sé i suoi sostenitori, probabilmente il capo del movimento non sarebbe più stato Mussolini, oppure avrebbe potuto dividere con lui la direzione dei Fasci di Combattimento.

Benito Mussolini il 5 aprile 1921 si recò in visita a Gabriele D’Annunzio nella sua villa di Gardone Riviera. La notizia venne anche riportata su “Il Popolo d’Italia”, scrivendo che i due avrebbero discusso della situazione politica, gettando le basi per degli accordi. D’Annunzio non pensava di candidarsi alle elezioni politiche e molti fiumani non sarebbero entrati nei Blocchi nazionali, pertanto nessun accordo venne raggiunto, anche se a Mussolini avrebbe fatto di sicuro molto comodo. Il 7 aprile, infatti, D’Annunzio scriveva che Mussolini avrebbe fatto suo il programma politico dannunziano già letto a Fiume, una rassicurazione che avrebbe portato a consigliare ad alcuni Legionari di candidarsi o di non ostacolare la candidatura dei Fasci, ma di certo non era chiaro che si fosse sottoscritto un vero e proprio accordo. Molto più probabilmente entrambi gli uomini non volevano arrivare ad una rottura, ma non si fidavano troppo l’uno dell’altro, per lo meno sul piano politico.

Un altro incontro con Mussolini era previsto a “Il Vittoriale” il 15 agosto 1922,  due giorni dopo il misterioso incidente occorso al Vate, probabilmente caduto da una finestra di casa sua; quindi il futuro Duce, il 28 ottobre seguente, giorno della marcia su Roma, inviò a D’Annunzio, ancora convalescente, un telegramma nel quale gli chiedeva di non dimostrarsi contrario ad un episodio del quale era stato ideatore già qualche anno prima. Di non mettere contro l’azione la gioventù che lo seguiva.

Il 14 marzo 1924, in occasione dell’annessione di Fiume all’Italia, il Re concesse a D’Annunzio il titolo di Principe di Montenevoso. Il 1924 sarà un anno di gravi accadimenti: in aprile morirà a Pittsburg Eleonora Duse, la Musa del Poeta, e pochi mesi dopo accadrà il rapimento e l’assassinio di Giacomo Matteotti, fatto definito da D’Annunzio una “fetida ruina”.

Il 25 marzo 1925, il Vate chiese al capo del Governo Mussolini l’appoggio per la costruzione del “Meandro del Benaco”, una strada litoranea che avrebbe permesso di congiungere la Venezia tridentina liberata con la regione lombarda, veneta, padana ed emiliana, come dalle sue intenzioni.

Due mesi dopo, una nuova visita di Benito Mussolini a D’Annunzio presso “Il Vittoriale”, il 25 maggio 1925, e i due solcheranno il lago a bordo del MAS. Un incontro cordiale, filmato da “Luce”, si avrà a “Il Vittoriale” tra i due uomini anche nel settembre del 1934.

L’attività di scrittore di D’Annunzio non si ferma, mentre segue la sistemazione della sua prestigiosa e sontuosa dimora. Vengono date alle stampe opere come “Il libro ascetico della giovane Italia”, “Faville del maglio”, “Cento e cento e cento e cento pagine del Libro Segreto di Gabriele D’Annunzio tentato di morire”.

Nel 1936, l’architetto Maroni si reca a Pescara per iniziare il lavoro di restauro della casa natale del Poeta.

Il 30 settembre 1937 il Vate incontra Mussolini alla stazione di Verona, al rientro di questi dal primo viaggio in Germania: sembra che il Duce, al massimo della sua gloria politica, non fosse molto propenso a dedicarsi alla conversazione con lui, che appare già di salute non più brillante. Alla morte del Poeta, Benito Mussolini presenzierà ai funerali, con il volto mesto, ma senza pronunciare parola. Riconosceva a D’Annunzio molte forme del fascismo.

Un’altra visita di Mussolini a “Il Vittoriale” si avrà in occasione della sua permanenza al lago di Garda, durante gli ultimi giorni della Repubblica di Salò, il primo marzo 1945, per la commemorazione della nascita di D’Annunzio. Lo ricorderà come colui che aveva celebrato le virtù della razza italica e che incitava, anche in quel momento, alla lotta con l’alleato germanico.

 

Conclusione

“Il Vittoriale degli Italiani” è un luogo unico nel suo genere sia per gli studiosi che per gli amanti dei giardini, sia per i turisti in genere che per chi ama il teatro. Il “Parlaggio” è stato inaugurato rivestito di marmo, come avrebbe voluto D’Annunzio in vita, nel 2020 e ospita ogni anno eventi che fanno onore al padrone di casa. Lo scenario del lago di Garda che si ammira dalla dimora del Vate è un angolo di paradiso indimenticabile di cui quest’anno si celebra il centenario.

 

Alessia Biasiolo

 

sabato 9 ottobre 2021

La battaglia del MOnte Mrzli 2 giugno 1915

 

Maria Luisa Suprani Querzoli

Il Generale De Rossi e la Battaglia del Monte Mrzli (2 giugno 1915)

 

Al Generale Eugenio De Rossi si deve la conoscenza dell’ambiente militare durante l’Età Umbertina: la sua autobiografia, infatti, accanto ai profili di figure divenute poi celebri, si sofferma ampiamente su fragilità e virtù che connotarono il mondo militare (italiano e straniero) a cavallo fra Ottocento e Novecento. Il suo si rivela quindi un contributo indispensabile per comprendere l’assetto mentale, morale e professionale, dell’Italia prossima ad entrare in guerra.

De Rossi, ad un certo punto della carriera, approdò felicemente fra i Bersaglieri: il suo dinamismo (provetto ciclista) e la capacità di coinvolgere con l’esempio i propri sottoposti denotavano in lui una rara sinergia fra equilibrio ed entusiasmo. Anche alla sua opera di intelligence l’Esercito dovette molto[1].

La grave ferita riportata durante le primissime azioni di guerra lo rese invalido, determinando così per lui la fine della partecipazione attiva al conflitto.

Varrà la pena riportare per esteso la descrizione del momento drammatico in cui De Rossi rimase colpito per poi concludere con alcune brevi riflessioni:

 

Tornai tra i miei bersaglieri, dissi brevemente essere venuta l’ora della prova, quella che il destino ha fissato per ognuno. Mi volsi poi a don Gilardi e lo invitai a far atto del suo ministero per i credenti e i miscredenti. […] I volti gravi ma fermi, la fierezza con la quale si drizzarono dopo l’assoluzione in articulo mortis mi dette la sicurezza della loro intrepida risoluzione. Avviai la pattuglia ufficiali, la compagnia di avanguardia e con essa mi incamminai.

Posi sul cappello l’aigrette bianca da colonnello: aveva brillato alla parete, si mostrasse ora al combattimento. […] Superammo altri 300 metri di dislivello. Tutto il mio essere era teso vero l’imminente scoppiar della fucilata, poiché il nemico non poteva tardare  farsi vivo. […] Feci dare il segnale di allungare il tiro, ma non fu compreso, o compreso alla rovescia, perché invece cessò improvvisamente […]. [I]l silenzio dei nostri pezzi fu immediatamente seguito dal crepitare della fucileria nemica e dall’abbaiare delle mitragliatrici, entrate in azione furiosamente. Ma la truppa stette salda attorno agli ufficiali e continuò poi l’ascesa sotto la raffica mortale, accorrendo alla mia voce che incitava e chiamava superando, stentorea come poi mi dissero, il fragore degli spari.[2]

 

Una constatazione prima di proseguire nel racconto: l’impiego delle artiglierie in affiatamento con il procedere delle truppe si dimostra fin da subito un punto di grave fragilità. L’esempio di compensazione morale alle manchevolezze di ordine tecnico è encomiabile. La narrazione di quel momento terribile gravido di molte perdite è particolarmente efficace: la si riprenderà dal momento in cui le cose, per De Rossi, precipiteranno.

 

Conclusione: un attacco frontale oltre che sanguinosissimo non condurrebbe ad alcun risultato, perché sarebbe impossibile rimanere sulla posizione conquistata, dominata completamente dallo Sleme; conviene perciò attendere che cominci l’azione che, per l’alto, doveva svolgere la colonna di fanteria ed artiglieria da montagna verso lo Sleme stesso, per il momento concorrervi dimostrativamente. Spiegai questa decisione ai miei ufficiali. Insistendo particolarmente con Negrotto della necessità della sosta, parve persuaso. Lasciai la linea di fuoco  per scendere ad una cinquantina di metri, in un punto donde si scorgeva il terreno che avrebbe dovuto percorrere la colonna aggirante e vedere altresì l’arrivo dei battaglioni chiamati in rinforzo […]. Non erano trascorsi dieci minuti che scoppiò vivacissimo il fuoco sul fronte, seguito dal grido di «Savoia!».

Era Negrotto che preso, suppongo, da un accesso di pazzia guerriera, volendo, ritengo, coprirsi di gloria e dimostrare che la baionetta è ancora oggi la regina della battaglia aveva ad un tratto ordinato il fuoco celere e senza dar tempo neppure a quel mezzo di agire, era partito all’attacco con il cappello sulla sciabola, seguìto dal suo battaglione. Quei valorosi non avevano toccato il fondo della dolina che già venivano falciati a mucchi: il resto dava indietro, sulla posizione di partenza.

Esasperato per la inutile e aperta disubbidienza, presi velocemente a salire sulla linea di fuoco e dimentico di ogni precauzione mi ingolfai in una zona battuta da mitragliatrici nemiche. Il cappellano mi avvisò del pericolo e mentre mi volgevo verso di lui per rassicurarlo, ebbi la sensazione di ricevere un forte pugno sul fianco destro. Subito le gambe mi si piegarono sotto.[3]

 

Volutamente non ci si soffermerà sulla gravità della ferita e sull’azione tanto ingenua quanto sconsiderata del Negrotto, né sull’agonia di quest’ultimo e sulle condizioni miserevoli in cui si trovò De Rossi, dato per spacciato. Sarà opportuno scorgere invece in questo frammento durissimo della Grande Guerra il passaggio storico fra il clima morale delle Guerre Risorgimentali e le istanze feroci e sconosciute poste dalla tecnologia, capaci di riformulare interamente le dinamiche del conflitto.

 

 



[1] Il riferimento è alla scoperta del Piano Conrad.

[2] E. De Rossi, La vita di un Ufficiale italiano sino alla guerra, Milano: Mondadori, 1927, pp. 278 – 279.

[3] Ivi, p. 283.