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Il Blog è stato attivato come espressione del Progetto “Storia in laboratorio” rivolto agli studenti delle classi medie e superiori. E’ espressione delle pubblicazioni Raccolte nella “Collana Storia in Laboratorio” E’ spazio esterno delle pubblicazioni del CESVAM – Istituto del Nastro Azzurro” (info:centrostudicesvam@istitutonastroazzurro.org)
Sergio Benedetto
Sabetta
Nell’attuale
tensione diplomatica in cui le parti giocano al rilancio per ottenere il
massimo dalle trattative, se non addirittura di realizzare l’obiettivo
primario, è da ricordare il “Caso Verde” del 1938-39, ossia il nome in codice
del piano segreto per attaccare e occupare la Cecoslovacchia e gli eventi che
ne conseguirono.
La
Cecoslovacchia era il frutto della sconfitta dell’Impero asburgico nella Grande
Guerra e delle teorie Wilsoniane, il 14 novembre 1918 il Comitato nazionale di
Praga assumeva i poteri militari e civili proclamando la Repubblica.
Con i successivi trattati di
Versailles e di Saint-Germain ottenne, da parte tedesca, il territorio nella
Slesia di Hlucin e dalla dissoluzione dell’Impero asburgico, oltre che la
Boemia e la Slovacchia, anche la Moravia e la Slesia.
Sebbene uno
dei paesi più progrediti culturalmente ed economicamente dell’Europa centrale,
soffrì da subito del revanscismo tedesco e dei problemi etnico -territoriali
derivanti dalla varietà della sua popolazione.
Su
15.240.000 di cittadini nel 1937, il 50% era costituto da Cechi, il 17% da
Slovacchi, il 22,3% da Tedeschi dei Sudeti, il 4,8% da Magiari, il 3,8 % da
Ucraini – Ruteni, l’ 1,3% da Ebrei e, infine, dallo 0,6 % di Polacchi, oltre ad
ulteriori minoranze tra cui Romeni e Zingari.
Il 28 maggio
1938 Hitler, riunito nella Cancelleria lo Stato Maggiore della Wehrmacht,
annunciò l’intenzione di invadere la Cecoslovacchia ( Piano Verde), la notizia
giunta a conoscenza degli Inglesi e dei Francesi spinse il primo ministro
inglese, d’intesa con il governo francese, Lord Arthur Neville Chamberlain, a
recarsi più volte in Germania per trattare con Hitler senza alcun esito.
Il 12
settembre, con il favore dell’Italia, Hitler ripresentò la richiesta di una
piena autonomia e del diritto di autodecisione per i Tedeschi dei Seduti, alla
quale Inghilterra e Francia fecero sostanziali concessioni.
Hitler ormai
convinto che le Potenze occidentali non sarebbero entrate in guerra rialzò la
posta, puntando segretamente allo smembramento dello Stato Cecoslovacco sotto
controllo tedesco.
La crisi era
ormai diventata una crisi europea e Chamberlain, consultatosi con il primo
ministro francese Daladier, chiese un incontro urgente con Hitler che fu
fissato per il 15 settembre.
A
Berchtesgaden il pomeriggio del 15 Hitler ribadì la ferma volontà di ottenere
la secessione dei Sudeti, Chamberlain chiese di potere consultare il suo
Gabinetto e il governo francese in cambio della promessa che nel frattempo i
Tedeschi non si sarebbero mossi.
Tornato a
Londra, mentre i Francesi si dimostrarono come gli Inglesi favorevoli ad
accettare le richieste tedesche, vi fu un netto rifiuto da parte del governo
céco che ricordò alla Francia il patto di alleanza firmato, tuttavia innanzi ai
tentennamenti francesi il governo céco , sentendosi abbandonato, il 21
settembre si dimise.
Il 22
settembre Chamberlain ritornò in Germania e nel pomeriggio a Godesberg sul Reno
incontrò Hitler, riferì che le richieste tedesche erano state accettate e che i
Sudeti potevano passare alla Germania senza la necessità di un plebiscito, per
le aree a popolazione mista una futura commissione di tre membri, tedesca, ceca
e neutrale, avrebbe deciso.
Infine, i
trattati di assistenza della Francia e della Russia potevano essere sostituiti
da una garanzia internazionale, così da rendere la Cecoslovacchia assolutamente
neutrale.
Hitler
pretese, rialzando la posta, che i Sudeti venissero immediatamente occupati
dalla Germania entro il 1 ottobre, le trattative proseguirono il giorno
seguente per via epistolare, alla sera vi fu un ulteriore drammatico colloquio.
Allo
statista inglese fu presentato un memorandum con allegata una carta geografica
contenente le pretese territoriali tedesche, l’evacuazione dei cechi dai Sudeti
doveva iniziare il 26 e terminare il 28 settembre, davanti alle proteste
inglesi il termine fu spostato al 1 ottobre, data che peraltro era già stata
segretamente fissata per l’attuazione del piano “Caso Verde”.
L’ultimatum
fu respinto dai governi francese, inglese e céco, la Francia dichiarò che
avrebbe mobilitato, lo stesso l’Inghilterra in appoggio della Francia in caso
di guerra, mentre Praga aveva già ordinato la mobilitazione.
L’ultimatum scadeva
alle ore 14,00 del 28 settembre, la guerra appariva inevitabile, sebbene buona
parte dei generali della Wehrmacht fossero contrari, quando nella tarda
mattinata Chamberlain chiese la mediazione di Mussolini, che accettò anche per
evitare gli obblighi del “Patto di acciaio”.
Nel
pomeriggio, durante una drammatica seduta della Camera dei Comuni, arrivò la
notizia che Hitler aveva accettato di spostare la mobilitazione di 24 ore per
incontrare a Monaco Chamberlain e Daladier con la mediazione di Mussolini,
esplose un applauso con la sola astensione di Churchill.
Il 29
settembre 1938 nel pomeriggio avvenne l’incontro a Monaco senza la
Cecoslovacchia per volontà tedesca, Mussolini presentò un memorandum ispirato
dai tedeschi per i negoziati che fu accettato a notte inoltrata.
L’accordo
prevedeva l’immediato inizio della evacuazione dai Sudeti dei céchi da
completarsi entro il 10 ottobre, senza alcun indennizzo per i beni lasciati e a
completo carico di Praga.
Sei mesi
dopo, tra il 15 e il 16 marzo 1939, violando gli accordi di Monaco tutta la
Boemia e la Moravia fu occupata e dichiarata Protettorato, il 16 marzo anche la
Slovacchia fu posta sotto la protezione tedesca, la Polonia e l’Ungheria
presero a loro volta i territori a maggioranza polacca e magiara.
Il risultato
immediato fu l’ulteriore decisione di Hitler di alzare la posta anche sulla
Polonia, la diffidenza dei Russi verso le potenze occidentali con il
conseguente patto Ribbentrop - Molotov dell’agosto 1939, la crescita
dell’ammirazione di Mussolini per la spregiudicatezza di Hitler, ma anche
l’eliminazione di qualsiasi opposizione tra i generali nella Wehrmacht che di
fronte all’aggressività di Hitler erano rimasti titubanti, oltre
all’acquisizione dei territori centrali dell’Europa per la successiva offensiva
verso la Polonia.
Bibliografia
·
R.
Cartier, La seconda guerra mondiale, Vol. I, Arnoldo Mondadori ed. 1968;
“ La risposta dipendeva dalla domanda che le veniva rivolta”
( Méro – Calcoli morali, 165)
Nella nostra analisi si può partire
dagli aspetti finanziari per arrivare a quelli più propriamente politico –
strategici, essendo aspetti diversi di uno stesso problema, sfaccettature che
si riconducono ad una stessa visione, molte volte in conflitto con se stessa
per la sua contraddittorietà.
Nell’intervento di Donato Masciandaro, Tassare la finanza : istruzioni per l’uso
( in E. & M. – SDA Bocconi, 46-47, Etas 3/2011), si affronta il rapporto
tra regolamentazione, tassazione e rischio sistemico finanziario secondo un’
ottica complessiva e non più separata, queste osservazioni nascono dalle
conseguenze della crisi finanziaria, fallimento della Lehman Brothers, iniziata nel 2008 a seguito della crisi dei mutui subprime scoppiata negli USA nel 2006,
crisi allargatasi nel 2009 all’U.E., a partire dalla Grecia, fino a coinvolgere
nel giugno del 2011 l’Italia stessa.
Quello che emerge sia per il controllo
che per la tassazione è il problema della valutazione del rischio sistemico,
sia in termini di prevenzione che di redistribuzione dei costi una volta
esplosa la crisi, deve tuttavia osservarsi che una valutazione del rischio
sistemico è molte volte mancata negli stessi Istituti preposti.
Vi è stata sostanzialmente una scarsa
coscienza, più o meno voluta, delle problematiche derivanti sia dall’uso di
determinati strumenti finanziari, sia del riflesso fiduciario che su di essi si
proietta nell’adottare determinati comportamenti politico-amministrativi.
L’ottica del breve e della necessità di non configgere sui
fondamentali, secondo una lettura politicamente corretta, ha fatto si che
affrontare il problema del rischio sistemico allargandolo dalle dinamiche
finanziarie a quelle sociali diventasse per i controllori e i regolamentatori
troppo complesso ed oneroso, d’altronde il continuo pendolo tra pubblico e
privato, tra socialismo e liberismo, ossia tra sopravvivenza del gruppo e
quella del singolo in un equilibrio stabile impossibile, fa sì che diventi
difficoltoso determinare il rapporto tra logica del gruppo e comportamento
individuale in una probabile strategia mista dalla difficile definizione (L. Mèro, Calcoli morali, parte II – Alle
origini della diversità, Dedalo ed. 2005).
La difficoltà stessa è diventata quindi
alibi per non dire, per non disturbare i manovratori e gli interessi
coalizzati, se non a sua volta elemento per piegare le valutazioni sui binari
desiderati, la stessa tecnologia nell’aumentare le possibilità di analisi a
seguito dell’abbondanza di dati disponibili e della potenza di calcolo,
complica di fatto le valutazioni sulle possibili conseguenze dell’interagire di
innumerevoli sistemi collegati fra loro, rendendo le stesse metodologicamente
arcane per la generalità dei cittadini.
Si evita quella che gli antichi
chiamano “parresia”, ossia la capacità e/o volontà di dire quella che si
ritiene essere la verità attraverso il dialogo, anche e proprio in contrasto
con il potente quale proprio dovere, la critica motivata che crea il rischio
per chi la espone ma proprio per questo acquista un valore di verità.
Il controllore attraverso la
valutazione del rischio sistemico e l’esposizione del metodo diventa soggetto,
ma anche oggetto, di un dibattito sull’esistenza del rischio che può essere
spiacevole ma senz’altro moralmente necessario per la democrazia.
“Nel
campo delle istituzioni politiche, la problematizzazione della parresia
comportò un gioco tra logos, verità e nomos ( legge); c’era bisogno del
parresiastes per mettere in luce quelle verità che avrebbero assicurato la
salvezza ed il benessere della città” ( M. Foucault, Discorso e verità
nella Grecia antica, 67, Donzelli ed. 2005), la parresia era e resta la qualità
personale necessaria di un consigliere, in quanto se non lui che ha possibilità
e mezzi chi potrà parlare e spiegare?
Il rischio sistemico deve trasformarsi
in un rischio etico e quindi personale, quello di non compiacere il potente ma
anche il pubblico, dello scambio dell’utile personale per un utile collettivo,
in quanto compito di un consigliere pubblico è collegare il gene egoista
all’interesse di gruppo, nel risolvere il problema essenziale della coincidenza
tra parresia politica e parresia etica si che il “bios” si risolva nel “nomos” ( Platone, Le Leggi, in Opere Complete, VII, AA.VV., Laterza 1992).
Vi è tuttavia nell’Occidente
capitalistico moderno una profonda contraddizione tra forti valori etici ed una
illimitata “ Volontà di Potenza”,
ossia sulla tolleranza, sui diritti e la libertà della persona, sulla ricerca
della felicità, ma al contempo sulla crescente affannosa produzione di beni usa
e getta al fine di un consumo diretto al solo profitto.
Questo in una crescente concentrazione
di potere e ricchezza, a fronte di una funzionale proletarizzazione del livello
culturale mediante il mezzo tecnologico ( Cardini).
Se presupponiamo l’etica quale un sistema normativo posseduto dall’uomo per scegliere tra il fare e il non fare e nel fare, il modo dello stesso, sì da plasmarne l’essere, sorge il dibattito sul motivo di un tale sistema.
Il pendolare tra la ricerca di una
legge morale naturale o razionale e il negare tale possibilità presuppone la
ricerca implicita di un valore fondante dell’uomo, in altre parole vi è la
ricerca dell’esistenza o meno di un valore o più valori insiti nella specie
umana.
“L’unica
cosa che la natura ci impone è il vincolo di un sistema normativo capace di
sostituire con maggiore efficienza la perduta cogenza degli istinti. Quale
sistema normativo? Qualsiasi, purché funzioni. Questo è tutto ciò che dice la
natura.”(Paolo Flores d’Arcais, Controversia sull’etica, MicroMega, 5/2011),
partendo da una affermazione così assoluta dobbiamo chiederci se deve esservi
un fine al sistema normativo funzionante e se si, quale?
L’efficienza non può essere fine a se
stessa ma indirizzata ad un obiettivo che biologicamente può essere
l’autoconservazione, anche mediante riproduzione, non solo del singolo ma della
comunità che lo costituisce con i suoi valori, questo crea forme diverse e in
concorrenza di etica in cui vi è una differente miscellanea tra competizione e
collaborazione, strutture che l’esperienza viene a istituzionalizzare
normativamente.
Il prevalere “momentaneo” di una delle
forme etiche è il risultato di una maggiore efficienza produttiva e quindi
riproduttiva di una comunità rispetto ad altre comunità, la struttura modulare
che forma la comunità umana favorisce l’alternarsi delle “miscellanee etiche”
lungo la crescita tecnologica.
Il valore di giustizia che crea in noi
il senso etico, facendo emergere il negativo dell’ingiustizia, non è che la
compensazione dell’interesse individuale all’esistenza collettiva compenetrato all’esigenza della non violazione del proprio
essere, espresso sia nella personalità cosciente che nei suoi mezzi materiali.
La tecnologia di fatto muta l’etica e
sceglie in efficienza fra le etiche concorrenti, questo non deve comunque
portare ad una deresponsabilizzazione del singolo quale essere razionale che
deve risolvere le sue esigenze psicologiche di libertà e realizzazione.
La fluttuazione etica, risultato del
continuo processo entropico innanzi descritto, si rimodula sulle necessità di
sopravvivenza del sistema sociale, in un rapporto in cui la tecnologia cresce
in termini esponenziali e non lineari con un progresso tecnico che supera le
capacità di comprensione e previsione degli esseri umani.
Le capacità tecniche nel riflettere la
necessità espansiva dell’io, fanno si che ne diventino sempre più complesse ed
imprevedibili le conseguenze nonché le implicazioni tecnologiche, fino a
prevedere una possibile futura “Singolarità
tecnologica” nel cui avvento i modelli di previsione diventano inaffidabili
(Vernor Vinge) e gli stessi modelli etici potranno subire una rottura posta
nella necessità di riconsiderare quello che è coscienza ed il suo supporto
biologico.
Sebbene sia da più parti contestata la
sostenibilità di uno “sviluppo illimitato
dell’intelligenza” (Martin Rees), questo non elimina le
difficoltà che nel futuro si presenteranno con lo sviluppo della tecnologia e
le sue conseguenze in un possibile interfaccia biologico-informatico.
Le stesse organizzazioni umane, finora
chiuse, nell’evolvere verso sistemi aperti rimodulano i concetti di
responsabilità e dovere dell’individuo verso il collettivo, con una crescita
del senso di conservazione e trasmissione dell’io nel e con il ristretto gruppo
che lo sostiene meglio definito, seppure dai confini incerti, rispetto
all’attuale informe sociale (Baumann),
si crea un’etica individualista che si compenetra in una intelligenza
collettiva non più strettamente territoriale (Teoria dello Sciame) che
impone un riconoscimento collettivo della dignità dell’io non più legato al
solo territorio.
Gli
stessi diritti tanto sostenuti delle varie minoranze, trasformati nel politicamente corretto e woke, permettono di impedire la visione
dei veri conflitti potenziali derivanti dall’azione dell’establishment a
seguito del crescente malessere per l’impoverimento della classe media operaia.
“ La
decadenza include degrado morale, edonismo ed egoismo, nonché l’incapacità di
sacrificarsi per difendere la civiltà dai suoi nemici esterni” ( 240, F. Rampini, Suicidio occidentale,
Mondadori 2021).
La sopravvivenza dell’io con le sue
esigenze può avvenire in termini predatori o intermini collaborativi, la scala
di valori per cui ciò avverrà sarà rimodellata dalla crescita esponenziale
della tecnologia e dalla sua capacità di influire sui nostri programmi
biologici, circostanza che imporrà continue accelerazioni nella rimodulazione
dell’etica e del conseguente sistema normativo.
Dobbiamo tuttavia considerare che
storia e filosofia costituiscono comunque parte della personalità, come tali
non possono essere ignorati, questo all’opposto dell’idea di una società
fondata sul solo aspetto economico, sull’utile, senza storia e liquida, con una
accelerazione di soli consumi e la sola creazione artificiale dei desideri, in
altre parole deve intervenire la qualità quale elemento distintivo sulla sola
produzione di massa, una caratteristica propria della civiltà.
Vi è una manipolazione e annullamento
“morbido” della personalità in una apparente libertà, felicità dell’essere
debitamente diretta al solo consumo in un perenne “usa e getta”.
Un conflitto tra un dirigere morbido,
democratico, e un controllo autoritario esterno, la libertà risiede
nell’intreccio tra storia e cultura che, come alla caduta dell’Impero Romano,
si concentra in centri di studi come nel VI secolo D. C. vi furono le fondazioni
dei monasteri benedettini.
Nell’evoluzione storica vi è l’etica,
come dalla Grande Guerra nacque un uso della violenza diffuso e una rigida
pianificazione economica, con una esasperazione della teoria marxista, la
diffusione di regimi totalitari, ma anche l’ingresso delle masse nell’agire
politico e la conseguente trasformazione dei regimi liberali.
Attualmente vi è in corso quello che è
stato definito un “caos imperiale”, con una “privatizzazione politica” degli
eserciti ufficiali a cui si affiancano gli imprenditori degli “eserciti
privati”, senza che vi siano confini ben definiti, una globalizzazione senza un
centro chiaro ma con una periferia informe adatta ad una élite internazionale
di imprenditori e finanzieri, coperti dal “pensiero unico” imperante.
Sopra una apparente legalità sostenuta
da organismi sovranazionali vi sono lobby e corporation che agiscono fuori da
regole, appoggiate sulla nuova tecnologia che interconnette il globo, senza una
“cultura del limite” pur necessaria al fine del recupero del senso comunitario
(Cardini).
BIBLIOGRAFIA
·
R. Kurzwell, Come
creare una mente, Apogeo ed., 2013;
·
Z. Bauman, Nati
liquidi, Sperling & Kupfer, 2017;
·
F. Cardini, La
derivi dell’Occidente , Ed Laterza, 2023;
·
F. Rampini,
Suicidio occidentale. Perché è sbagliato
processare la nostra storia e cancellare i nostri valori, Mondadori, 2021.
Volume 27 Collana Storia in Laboratorio. In Preparazione
Seguito dei precedenti, uno dedicato al 1914 e l’altro al primo semestre del 1915, il presente volume descrive lo svolgersi della guerra sulla nostra frontiera orientale. Mentre tutti si aspettavano una rapida e vittoriosa conclusione, emersero sul campo i nodi di una decisione diplomatica affrettata (Il Patto di Londra) che mise in difficoltà i vertici militari. Difficoltà che si tradussero in una mobilitazione tardiva, tanto che, dichiarata la guerra il 24 maggio, la prima vera grande offensiva (
Il primo mese di guerra lo chiamammo “Il balzo in avanti” un eufemismo per dire che l’Esercito entrò in guerra impreparato; una impreparazione che ci costò cara in quanto diede tempo all’Austria-Ungheria di far affluire verso il suo confine meridionale, al momento della dichiarazione di guerra indifeso, sufficienti truppe per contrastare la nostra avanzata.
Dopo la prima offensiva, né lanciammo, nei mesi successivi, altre tre, (Seconda, Terza e Quarta Battaglia dell’Isonzo) che in sostanza non ebbero alcun successo. L’euforia del “maggio radioso” pian piano lasciò il posto alla disillusione ed alla rassegnazione, mascherata da esteriorità patriottiche. La guerra non sarebbe stata né breve né facile ed il Paese né prese atto.
Nel volume questo andamento della guerra è descritto riportando l’impiego in linea delle Brigate di fanteria dal nome marchigiano, “Marche”, “Ancona” e “Macerata” e da altre, come la Brigata “ Messina” e la Brigata “Acqui” che erano di stanza, in tempo di pace, nelle Marche. In più si descrive le vicende della Brigata “Alpi” per riportare l’interventismo risorgimentale alla prova della trinca.
Il volume presenta le Marche come regione di prima linea, in quando, dopo aver dato il concetto di “trincea marittima”, nel descrivere la strategia adottata dalla Regia Marina, sottolinea il ruolo di Ancona come piazzaforte offensiva. E su questa scia da i primi tratti di come le provincie marchigiane, Pesaro, Ancona, Macerata Ascoli Piceno ed il fermano, subissero incisivi cambiamenti socioeconomici, ora repentini ora più lenti, che la guerra richiedeva.
Il volume è anche espressione della attività, lezioni, seminari, relazioni, e incontri, svolta nel secondo semestre 2015 dall’Autore per ricordare e celebrare il centenario della Grande Guerra.
Con linguaggio accessibile e l’ausilio di molte immagini a colori, questo libro vuole introdurre a un tema che, pur collocandosi in un campo di studi oggi centrale nelle scienze sociali quale quello della dimensione simbolica del potere, risulta ancora troppo poco analizzato: la spazialità del potere e le sue espressioni cartografiche. Lo fa raccontando storie e tratteggiando personaggi, ma ambisce ad essere molto più di una semplice raccolta aneddotica: vuole infatti ricostruirne l’evoluzione storica, a partire da quei prodotti cartografici a cavallo tra scienza e arte eredi della tradizione rinascimentale fino alle sperimentazioni grafiche delle carte geopolitiche di oggi.
I protagonisti del libro sono dunque molti: le carte come oggetti in sé, i loro autori, il pubblico che le sfoglia, il potere che le commissiona e vi viene ritratto anche quando non compare direttamente. Ma in realtà il protagonista principale è un altro ancora: l’atto comunicativo che si instaura tra la carta e l’osservatore, momento in cui si esprime tutta la ricchezza e il fascino del linguaggio cartografico.
Edoardo Boria, geografo, insegna presso La Sapienza-Università di Roma. I suoi interessi di ricerca sono prevalentemente rivolti alla storia del pensiero geografico e della cartografia. In quest’ultimo ambito ha approfondito lo studio del valore politico e sociale della carta geografica, su cui ha scritto numerosi saggi e il volume Cartografia e potere (UTET, 2007).
Volume n. 18 Collana Storia in Laboratorio
Francesca Romana Lenzi, L'Italia in Alta Slesia (1919-1922), Roma, Casa Editrice Nuova Cultura, 2011, pag. 128, Euro11, ISBN 9788861346963
Durante lo svolgimento delle Conferenze della pace che seguirono il primo conflitto mondiale, alcuni peculiari aspetti delle trattative furono oggetto di studio di specifici organismi istituiti per dare attuazione alle decisioni assunte dalla Conferenza degli Ambasciatori. Tra di esse, la questione della delimitazione dei confini costituì un nodo di rilevanza cruciale per i risvolti di natura sociale, politica e diplomatica che avrebbero comportato tali delicate decisioni sul piano internazionale. Tra essi, vi fu la questione dell’Alta Slesia, una regione ricca e, pertanto, fortemente contesa tra la Germania e la Polonia. Venne predisposta una Commissione interalleata di governo e plebiscito composta da un generale inglese, uno francese e uno italiano, con il compito di garantire l’ordine pubblico ed il regolare svolgimento della consultazione plebiscitaria con cui il popolo avrebbe deciso il proprio destino. L’Italia, seppur non direttamente interessata al territorio conteso, ricoprì un ruolo politico di protagonista e di mediatrice, che costituì un’occasione preziosa da spendere in favore di interessi più grandi, di politica estera, specie nei rapporti con le altre Potenze europee.
È l’argomento che viene trattato in questo volume: dopo aver descritto i fatti, si cerca di focalizzare le cause di tanto disastro. Si propone la tesi che queste perdite abnormi non siano dovute principalmente e solamente alle carenze di equipaggiamento, come si continua a credere, ma ad una serie di altre cause. Nel volume sono individuate: nella avventatezza e superficialità strategica del vertice politico del tempo; nella acquiescenza pedissequa del vertice militare di allora che non fece prevalere, nel processo decisionale, le considerazioni tecnico-operative, poi sbandierate con insistenza, a disastro avvenuto; nella incapacità dei Comandanti in loco di valutare realisticamente la situazione prendendo le discendenti difficili e virili decisioni; nel mancato appoggio, al limite del tradimento, dell’alleato tedesco che prima ordina la resistenza ad oltranza alle Forze Italiane, e poi le abbandona al loro destino; nella constatazione che anche il miglior equipaggiamento non sarebbe stato sufficiente ad evitare tale disastro, date le condizioni in cui operarono, durante la ritirata, le nostre Forze Armate. Il volume è premessa a quello dedicato alla Prigionia italiana in mano alla URSS nel periodo 1941-1954, in cui si sostiene la tesi che la mortalità nella prigionia in mano alla URSS è equivalente a quella delle altre prigionie della seconda guerra mondiale.
Carlo d’Angiò è il cavaliere che campeggia al centro dello stemma d’Ancona. Lo sostiene, senza porre dubbi, l’ultimo governatore pontificio di Ancona, conte de Quatrebarbes. Dopo giorni di lotte accanite, con suo grande rammarico, lo stemma pontificio, il 29 settembre 1860 doveva essere abbassato per far posto allo stemma sabaudo, significando la fine del potere temporale dei Papi nelle Marche. La descrizione degli avvenimenti di parte pontificia per la difesa di questo potere è il filo conduttore del presente volume, che pone Ancona al centro degli avvenimenti del 1860. Avvenimenti che sono descritti nell’ottica di coloro, i legittimisti cattolici, che volevano difendere questo potere, perdurante da oltre tre secoli, che ritenevano indispensabile per l’esercizio della missione del Papa e della Chiesa Cattolica.
Nel adottare il principio che è con la geografia che qualsiasi storia deve iniziare, caro all’Autore, il volume dedica ampio spazio ad Ancona come città e come piazzaforte. Ne esce un quadro di come Ancona era nel 1860, un quadro che si può considerare come il punto di partenza dello sviluppo, non solo urbanistico, della Dorica negli ultimi 150 anni.
Nella prima parte del volume, che è questo Tomo I, viene presentata Ancona come era nel 1860, ovvero dopo oltre tre secoli di dominio papale. Ancona nella sua struttura urbanistica, tutta racchiusa entro le mura, in cui le opere militari di difesa, forti, bastioni, portelle, mura si alternano con i simboli e i luoghi della Chiesa, in particolare chiese e conventi. Ad Ancona accorsero per la difesa dei diritti della Chiesa la gran massa dei legittimisti di tutta Europa, escludendo o emarginato l’elemento “italiano” chiamato con una parola estremamente significativa “indigeno” o romano; aspetto questo che sottolinea come la Chiesa della seconda metà dell’ottocento era contraria al processo unitario italiano e sosteneva con tutte le sue forze i suoi diritti temporali; una convinzione che oggi appare non solo superata, ma aberrante nella visione della Chiesa universale, riferimento di tutti i popoli di buona volontà. Questo Tomo I è la fotografia, quindi, di Ancona, nel 1860; Ancona dentro le sue mura in una visione conservatrice e rivolta al passato di una città dalla vocazione cosmopolita e marinara. Gli avvenimenti come sono descritti fanno emergere una azione, da parte dei responsabili pontifici, piena di errori politici, sociali, economici, diplomatici e, soprattutto militari, che agevolò non poco l’affermarsi della temuta quanto odiata “rivoluzione”, tanto che le vittorie dei Sardi, ovvero degli Italiani, ottenute in questo modo, per la facilità con cui sono state conseguite, oggi non vengono considerate importanti, come in realtà sono, ma sostanzialmente disconosciute. Un oblio che coinvolge anche Ancona, nella Storia nazionale, che in questo passaggio, per lei fondamentale dallo Stato preunitario allo Stato nazionale perdette uno dei suoi monumenti più qualificanti e rappresentativi; la Lanterna, simbolo della essenzialità della sua vocazione commerciale e marittima. Un volume che vuole sottolineare che il nostro Risorgimento, in questa appena passata data anniversaria del 2011, più che celebrarlo va conosciuto e, possibilmente, studiato. Così come la Storia di Ancona.
Quando si parla di Secondo Risorgimento, vengono alla mente soprattutto “due storie” del 1943-1945: da un lato, l’apporto fornito dalle Unità regolari italiane agli Alleati durante la Guerra di Liberazione (Campagna d’Italia per gli anglo-americani); dall’altro, la guerra partigiana, intesa principalmente come partecipazione clandestina alla lotta di liberazione, di civili e di partiti politici italiani. Storie tenute separate, una specie di dicotomia storiografica, che relega i militari esclusivamente alle operazioni al fronte e che soltanto di recente è stata in parte sanata con il riconoscimento, anche di autorevoli rappresentanti del mondo Accademico e di quello Istituzionale, del contributo fornito da soldati, marinai ed avieri, alla guerra partigiana. Ma quanto determinante sia stata la partecipazione degli uomini in uniforme alla lotta clandestina ancora non è stato scritto. Questo volume vuole essere, nel filone che ben si collega ad una “storia in laboratorio”, un contributo ed una testimonianza documentata del determinante e prezioso apporto che Comandi militari, capi, e gregari con le stellette vollero e seppero dare alla guerra partigiana. Attraverso le documentazioni di archivio, viene infatti descritto quanto l’Istituzione militare fece per l’organizzazione, la conduzione, lo sviluppo e la partecipazione diretta alla guerra clandestina, ovvero alla resistenza contro i tedeschi, dal 1943 al 1945, a partire dalle prime reazioni armate immediatamente dopo l’armistizio. E quanto la presenza dei militari sia stata richiesta, all’epoca, dalle stesse bande partigiane, per la conoscenza tecnica della guerra che i militari avevano e che altri non possedevano. Una esauriente ricerca in materia è oggi resa possibile grazie anche all’acquisizione, da parte dell’Ufficio Storico dello SME, della ricca documentazione del S.I.M., versata dal S.I.S.M.I. (ora A.I.S.E.), a cavallo del 2000. Il S.I.M. ed il Comando Supremo, infatti, furono organi propulsori della lotta clandestina e sono le loro carte ad attestare come i protagonisti con le stellette (si pensi per esempio a Montezemolo, a Cadorna, ai fratelli Di Dio, al maggiore Martini-Mauri), siano stati artefici della lotta e fra mille difficoltà abbiano fornito un contributo rilevante, insostituibile e di estrema efficacia alla liberazione della Patria. La speranza è che tale contributo diventi conoscenza estesa con onestà intellettuale anche a livello didattico, nei testi scolastici, in modo che le giovani generazioni abbiano giusta memoria degli avvenimenti e possano identificare le loro Forze Armate non solo in quelle di Caporetto e dell’8 settembre, ma anche in quelle della Liberazione della Patria: affinché apprendano una storia dimenticata di un’epoca così difficile vissuta dai loro padri.
Il volume tratta degli eventi che vanno dalla capitolazione di Loreto del 19 settembre all’arrivo del Re di Sardegna, Vittorio Emanuele II, in Ancona, il 3 ottobre 1860.
Eventi che sono stati, dalla storiografia, quasi sempre presentati come susseguenti e consequenziali, e
quindi non significativi, a quelli del 18 settembre 1860, durante i quali il gen. Cialdini impedì, e disperse, nella vallata del Musone le forze pontificie del De La Moriciére, provenienti dall’Umbria, che cercavano di rinchiudersi in Ancona e dare vita ad un assedio ad oltranza, in attesa dell’intervento delle potenze Cattoliche, soprattutto dell’Austria.
Il pericolo di un intervento austriaco era stato sempre tenuto presente dal Comando Sardo. Prendere
Ancona significava scongiuralo. Il piano di invasione delle Marche e dell’Umbria del generale Fanti teneva ben presente questo pericolo: le due masse per la campagna di invasione dello Stato Pontificio prevedeva che la più consistente fosse quella del generale Cialdini, che avrebbe operato lungo la litoranea adriatica; questa massa era, nel contempo, più vicino alla Valle Padana ed all’Emilia, pronta a retrocedere, in caso di attacco austriaco, e formare il fianco sud dello schieramento già in atto, 150.000 uomini, schierati lungo il confine veneto-lombardo. L’altra massa, la meno consistente, doveva operare nell’Umbria, e, conquistatela, avrebbe marciato, via Colfiorito, su Ancona e sarebbe stata la sola a gestire le operazioni nello Stato Pontificio, divenuto, in presenza dell’iniziativa austriaca, un fronte secondario. L’azione delle due masse avrebbe avuto il concorso della flotta, e, conquistata Ancona, la piazzaforte sarebbe stata la base di operazione sul mare contro l’Austria. Se l’Austria non si fosse mossa, l’obiettivo rimaneva sempre conquistare Ancona, ma le due masse, riunite, avrebbero dovuto marciare verso sud per portare nell’alveo moderato l’iniziativa garibaldina, impedendo la costituzione di una repubblica mazziniana a Napoli e nel meridione d’Italia. Ancona ha, in queste piano, un ruolo centrale e rimase sempre l’obiettivo primario di tutta l’azione Sarda. In una operazione che oggi diremo “joint”, l’investimento e la presa di Ancona rappresenta un esempio brillante di capacità militare e intuizione politica, fuse insieme, che rappresenta una pagina esaltante della nostra tradizione militare
Ancona, divenuta Sarda, da piazzaforte periferica di uno Stato al tramonto, diventa una piazzaforte di
primaria importanza di uno Stato chiamato a partecipare alla formazione dei nuovi equilibri tra le
Potenze, non solo mediterranei, ma anche europei. Ed Ancona stessa inizia, da quel 29 settembre 1860,
uno sviluppo sociale, economico ed urbanistico di prima grandezza, che la percorrerà per tutto l’800 e la prima metà del secolo breve.
Il volume descrive quei eccezionali giorni del settembre 1860 durante i quali si realizzano i momenti più belli ed esaltanti della storia recente della città Dorica.
A giudizio di chi scrive l’errore sistematico, che con questo volume s’intende superare, è che sinora gli avvenimenti relativi all’armistizio dell’8 settembre 1943 e agli eventi che ne seguirono sono stati giudicati con il senno del poi, nell’ottica della situazione venutasi a creare nel dopoguerra e del clima culturale dominante. Questa è un’ottica che i protagonisti del tempo non potevano avere, pertanto il loro approccio logico doveva inevitabilmente essere differente, persino sui risultati finali del conflitto, che la classe dirigente nazista era convinta di potere ancora volgere a proprio favore. Gli italiani erano stati informati dello sforzo per realizzare risolutive “armi segrete” proprio nella riunione di Feltre del 19 luglio 1943, giorno del bombardamento del quartiere San Lorenzo di Roma. Mussolini, in quell’occasione, rimase a tal punto affascinato e succube dell’esposizione di Hitler da non fare cenno alcuno all’intenzione che stava maturando in alcuni ambienti italiani di uscire dal conflitto. Questo fu probabilmente determinante a creare un clima favorevole a un suo avvicendamento, che come abbiamo visto fu equivoco (la guerra continua) e finalizzato alla tenuta del fronte interno e al mantenimento dell’ordine pubblico. Se il doppio gioco di Badoglio, del quale parla Churchill, doveva avvenire ai danni degli angloamericani e non dei Tedeschi, molte delle cose incomprensibili e non ancora chiarite di quei giorni possono venire riviste sotto nuova luce e persino razionalmente spiegate. In questo volume si avanza l’ipotesi dell’inganno strategico ovvero attirare in una trappola gli Alleati, farli sbarcare, fingere inizialmente di combattere e poi o decidere la resa, rispettando i patti, oppure ributtarli a mare, con i Tedeschi compartecipi del disegno. Forse diffidavano, ma in questo caso le assicurazioni di Badoglio e di Vittorio Emanuele a Rahn devono venire lette sotto un’ottica diversa da quella corrente, che attribuisce loro un’incredibile faccia di bronzo. Gli avvenimenti cominciarono a precipitare solo nel pomeriggio dell’8 settembre, quando apparve chiaro che Eisenhower non era disponibile a sentire ragioni e che la parte italiana doveva “prendere o lasciare”, cioè continuare il gioco pericolosamente oltre il previsto, avallando uno strumentale armistizio, oppure denunziare gli accordi di Cassibile, ma compromettere la fase cruciale dell’inganno strategico che avrebbe dovuto concretizzarsi entro pochi giorni.
Altro punto che sembra accreditare la nostra tesi, ed in particolare che la cosiddetta “fuga da Roma” avesse inizialmente come meta Chieti e non Brindisi, è l’atteggiamento tenuto dai membri della comitiva regia nella sosta presso i duchi di Bovino, dai quali si erano recati a pranzo. Il Sovrano, che fece notare di avere nel portafogli una somma di poco superiore alle mille lire dell’epoca, il duca d’Acquarone, che confessò di avere con se solo il vestito che indossava, Badoglio che rafforzò le sue convinzioni con un riferimento alle sue origini piemontesi, tutti ribadirono; e con enfasi, che l’allontanamento da Roma sarebbe stato un evento di pochi giorni. Sono affermazioni incomprensibili, addirittura da scriteriati, se le si giudica alla luce di come sappiamo andarono a finire le cose; al contrario, se le si interpreta alla luce della nostra tesi, che la cosiddetta “fuga da Roma” doveva essere, portandosi al limite del versante opposto dell’Appennino, un prudenziale allontanamento dalla costa tirrenica e dall’area di Roma dove avrebbe dovuto infuriare – così si pensava – una violenta battaglia aeronavale e terrestre per respingere più teste di ponte di un massiccio sbarco previsto in forze, allora queste strane e sinora illogiche affermazioni di ottimismo acquistano significato e soprattutto si spiegano in maniera logica e pertinente. Il volume presenta questa tesi che può essere accettata o meno, ma con l’ottica che alla fine di questi inganni reciproci, si dissolse ogni potere per la Monarchia e per gli Italiani arrivò il momento delle scelte, dalle quali si creò l’architettura della Guerra di Liberazione.
L'attività dell'Unione Nazionale Ufficiali in congedo d'Italia, U.N.U.C.I.., sezione di Spoleto, sostenuta e stimolata dal suo Presidente, gen. Fuduli, ha propiziato la edizione di questo volume. E' un traguardo molto importante, perchè, attraverso l'attività di ricerca e di documentazione, si è riusciti a raccogliere il materiale documentario relativo alla attività dei superstiti della Divisione "Perugia" volta a ricordare chi, avendo fatto solo il proprio dovere, era stato travolto dalla crisi armistiziale. Ricordare i compagni Caduti è stata la stella polare di chi voleva far conoscere in Italia questa tragedia, caduta subito nell'oblio e rimastaci per lunghi anni. Anni che non sono stati facili. Segno di queste difficoltà è il fatto che alla proposta, nella prima metà degli anni settanta del secolo scorso, di erigere un monumento ai Caduti della "Perugia" a Perugia, l'Amministrazione del tempo oppose non solo un rifiuto, ma furono trovate giustificazioni quasi al limite dell'insulto e della provocazione. Il monumento fu poi eretto a Trento, in quanto tutta la documentazione relativa alla Divisione, fino allora raccolta, era già stata depositata presso il Museo del Risorgimento e della Libertà . Quindi il Monumento ai fanti della "Perugia" è a Trento. Il volume, quindi, fornisce la documentazione prodotta per oltre sessanta anni, da chi fu protagonista degli avvenimenti che dall'8 settembre fino ai primi di ottobre 1943, sotto forma di lettere, documentazione, dichiarazioni, ed altro. Importante il periodo guerra durante in cui emerge il grande dramma della Resistenza Italiana all'estero: il mancato aiuto degli Alleanti in Grecia e nei Balcani, quando vi erano margini di intervento diretto ed indiretto. Gli anni del dopoguerra sono sottolineati dalla attività di Francesco Rovida, che fu proprio grazie a lui che la maggior parte delle testimonianze riferite alla "Perugia" furono raccolte e conservate. Seguono le altre iniziative, e le attività di ricerca. Il Volume, quindi, ricostruisce la storia dal basso, dal singolo uomo dal protagonista umile, ma che è centrale in tutte le storie e la Storia. Un volume da leggere e da studiare, e da porre a base di ricerche e approfondimenti, che è uno degli obiettivi del progetto "Storia in Laboratorio", di cui il volume è un tassello veramente importante.