1866 QUATTRO BATTAGLIE PER IL VENETO

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1866 Il Combattimento di Londrone

ORDINE MILITARE D'ITALIA

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CAVALIERE DI GRAN CROCE

Collana Storia in Laboratorio

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.La collana Storia in Laboratorio 31 dicembre 2014

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La Collana Storia in Laboratorio al 31 dicembre 2011

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martedì 19 gennaio 2010

IL PROCESSO DI NORIMBERGA E LE SUE EREDITA’ GIURIDICHE


1. PREMESSA
Circa sessant’anni anni fa, Il 1° ottobre del 1946, il Presidente del Tribunale di Norimberga, lord Geoffrey Lawrence, pronunciò il verdetto.[1] Furono comminate 12 condanne a morte, di cui una in contumacia. La data dell’esecuzione fu fissata per il 16 ottobre. Hermann Goring, l’imputato più importante al processo[2], si tolse la vita il giorno prima con una fialetta di cianuro. La notte successiva furono eseguite 10 impiccagioni in 103 minuti, utilizzando tre grandi forche issate all’interno della palestra del carcere di Norimberga. Il boia era John Wood , un sergente americano che morì qualche anno più tardi collaudando di persona una sedia elettrica[3]. Le ceneri dei gerarchi nazisti furono sparse dopo l’esecuzione nel letto del fiume Isar. Svanirono così, complice anche il destino, le tracce di alcuni tra i più significativi protagonisti di Norimberga.
Il processo di Norimberga offrì alla comunità internazionale le basi, etiche prima ancora che giuridiche, per perseguire quegli individui che si erano macchiati dei più gravi crimini contro il diritto dei popoli (crimini di guerra, crimini contro l’umanità e crimini contro la pace)[4]. Si prescindeva, a tal fine, da taluni principi cardine del procedimento penale, per affermare con forza il diritto punitivo della comunità internazionale verso i crimini lesivi di valori universali[5].
Ma dopo Norimberga - e Tokyo sul versante orientale[6] - vi fu una stasi dell’attività dei Tribunali internazionali, legata al lungo periodo della guerra fredda. In questo periodo i principi di Norimberga non furono più applicati, nonostante non fossero mancate le occasioni per farlo (ad esempio in Cambogia, in Vietnam, in Algeria, e così via).
Dopo la caduta del Muro di Berlino, le emergenze umanitarie degli anni ‘90 hanno imposto alla comunità internazionale un cambio di rotta. Importante, in tal senso, è stato anche il ruolo dei media che hanno portato nei salotti di tutto il mondo le atrocità commesse nelle aree di conflittualità. Ciò ha spinto la comunità internazionale a reagire con la costituzione dei Tribunali ad hoc (ex-Jugoslavia, Ruanda) e dei Tribunali ibridi (Sierra Leone, Timor Est, Kosovo) prima, e della Corte Penale Internazionale poi.
In tale contesto, si tratta di verificare se i moderni Tribunali internazionali abbiano mantenuto lo “spirito” di Norimberga e, conseguentemente, esaminare in quali termini sia corretto oggi, a distanza di sessant’anni, parlare di eredità giuridica di Norimberga.

2. L’EREDITA’ DA RIFIUTARE
Lo statunitense Robert Jackson, capo dell’accusa a Norimberga, durante un suo intervento del 21 novembre 1945, manifestò la speranza che quel processo potesse “apparire ai posteri come l’adempimento dell’aspirazione umana alla giustizia”.
Non occorre un’analisi particolarmente profonda per constatare, con una nota di rammarico, che quella nobile speranza è rimasta in parte disattesa.
Le critiche al Tribunale di Norimberga furono aspre e riguardarono principalmente il mancato rispetto di alcuni canoni del giusto processo, con particolare riferimento alla violazione dei principi della irretroattività della legge penale e della giustizia uguale per tutti[7].

a. Il principio di irretroattività della legge penale
Tra i principi universalmente riconosciuti a cui si ispira il diritto penale, quello della irretroattività della legge penale (nullum crimen, nulla poena sine lege praevia) occupa un posto di rilevanza assoluta.
Proprio sulla presunta violazione di questo principio furono sollevate le maggiore critiche al Tribunale di Norimberga, che secondo i più fondò i suoi verdetti su leggi create post factum. Tali critiche non erano riferite ai crimini di guerra, la cui punibilità era già da tempo riconosciuta dal diritto internazionale dei conflitti armati[8], quanto ai crimini contro l’umanità e ai crimini contro la pace.
In ordine alla prima fattispecie (crimini contro l’umanità), i crimini commessi all’interno di uno Stato sovrano contro i propri cittadini erano allora considerati quali affari interni, ove il diritto internazionale non poteva assolutamente interferire. Ma non si intendeva lasciare impuniti tali crimini[9]. Si cercò così di superare il problema attraverso un artifizio interpretativo, dichiarando punibili solo i crimini contro l’umanità in stretta connessione temporale con i crimini di guerra. Pertanto tutti i crimini commessi prima dell’inizio della guerra, compreso lo sterminio di massa degli ebrei già cominciato, non rientrarono in questa categoria e rimasero impuniti[10].
Tali argomentazioni giuridiche appaiono poco convincenti. Ritenuto giusto e prioritario punire i responsabili di tali crimini, allora si sarebbe dovuto ammettere, chiaramente, l’infrazione del principio di irretroattività della legge penale. Difatti tale principio, nel caso di specie, poteva anche essere sacrificato da superiori esigenza di giustizia, in quanto in conflitto con altri interessi maggiormente meritevoli di tutela giuridica (quali la repressione dei più gravi crimini contro l’umanità).
Anche in relazione alla seconda fattispecie (crimini contro la pace per aver diretto guerre di aggressione contro altri Stati), valgono le medesime argomentazioni. E’ vero che la Germania aveva firmato nel 1928 il patto Briand-Kellogg[11] e, con tale adesione, aveva espressamente rinunciato alla guerra di aggressione. Tale patto, tuttavia, non prevedeva alcuna sanzione per i trasgressori. In altri termini, pur costituendo il crimine in parola una palese violazione del diritto delle genti, nessuna norma del diritto internazionale prevedeva la sua punibilità. Anche in questo caso, pertanto, si sarebbe dovuta ammettere esplicitamente la violazione del principio di irretroattività, da sacrificare per superiori esigenze di giustizia.
In tal senso, come sostiene il Merkel, “il principio che i crimini più gravi non possono rimanere impuniti, se non si vuole far vacillare la coscienza della legge della collettività, acquista un peso maggiore del divieto di retroattività” [12].

b. La giustizia dei vincitori
A Norimberga fu sollevata dalla difesa anche la questione della giustizia dei vincitori sui vinti, talvolta a prescindere dalla gravità dei crimini commessi da entrambe le parti. Nessun procedimento giudiziario fu infatti intentato a carico degli alleati.
Con riferimento ai crimini di guerra, Sergio Bertelli ha recentemente pubblicato un saggio sull’inutilità della maggioranza degli attacchi aerei alleati[13]: “A Norimberga mancavano alcune sedie”, sostiene l’Autore con riferimento a tali attacchi. Ed in effetti le forze alleate, durante la seconda guerra mondiale, condussero tantissimi bombardamenti devastanti, non tutti operativamente giustificabili[14]. Basta citare il nome di alcune città per ricordare: Rotterdam, Coventry, Londra, Dresda, Roma, Milano, in parte la stessa Norimberga. Ed ancora, sul versante orientale, Hiroshima e Nagasaki.
La stessa eccezione fu sollevata dalla difesa per il crimine di aggressione, atteso che l’Unione Sovietica, che sedeva sul tavolo degli accusatori, aveva invaso la Polonia a seguito del patto “segreto” Hitler-Stalin del 1939.
Lord Geoffrey Lawrence, Presidente del Tribunale di Norimberga, chiamato ad esprimersi su questi fatti potenzialmente lesivi dei principi del giusto processo, liquidò definitivamente la questione con queste parole: ”Non sediamo qui per giudicare se altre potenze non abbiano rispettato lo ius gentium, o abbiano commesso delitti contro l’umanità o crimini di guerra. Siamo qui per giudicare questi imputati per questi fatti”[15].
La legge non fu uguale per tutti neanche tra i vinti. Difatti, nel nostro Paese non vi fu una Norimberga italiana. Uno dei pochi a pagare fu il Gen. Nicola Bellomo (Comandante del Presidio militare di Bari, che tra l’altro fu insignito di medaglia d’argento per le operazioni militari contro i tedeschi nella difesa del porto di Bari). Nell’immediato dopoguerra fu condannato a morte da una Corte militare inglese con l’accusa di avere ucciso personalmente due ufficiali inglesi prigionieri nel campo pugliese di Torre Tresca dopo un tentativo di fuga. Il Gen. Bellomo sosteneva che ai militari fu sparato mentre fuggivano (l’uccisione in caso di fuga era allora ammessa dalle consuetudini internazionali, fatto che ora è invece ammesso solo in casi estremi). La Corte ritenne invece che i due erano stati uccisi dopo la cattura, e che quindi si trattò di una vera e propria esecuzione (vietata dall’art. 211 c.p.m.g., che recepiva l’ art. 8 della IV Convenzione dell’Aja del 1907 sulla guerra terrestre). Fu fucilato da un plotone d’esecuzione a Nisida l’11 settembre 1945[16].
La questione della giustizia amministrata dai vincitori è stata nuovamente riproposta nel Tribunale ad hoc per l’ex Jugoslavia, ove Slobodan Milosevic ha sostenuto durante il processo di “partecipare ad una gara di nuoto con le mani e i piedi legati”.[17] La stessa eccezione è stata più di recente sollevata in aula da Saddam Hussein nel corso del processo instaurato dinanzi al Tribunale speciale iracheno[18].
Nei casi esaminati, non si può invocare il precedente di Norimberga, in base al quale sarebbe lecito processare il solo criminale di guerra nemico militarmente sconfitto. Fare giustizia non vuol dire perseguire e condannare esclusivamente coloro che, tra i vinti, hanno infranto le leggi dell’umanità. Significa, anche, garantire una legge uguale per tutti e che questa, poi, sia effettivamente applicata. Il mondo non si dovrebbe infatti dividere in buoni (vincitori) e cattivi (perdenti). I criminali di guerra possono appartenere a tutte le forze in campo e i crimini di guerra devono sempre essere perseguitati da indipendentemente da chi li abbia commessi[19].
Anche gli Stati vittoriosi, dunque, devono accettare che i propri cittadini, qualora responsabili di gravi violazioni di norme dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario, siano sottoposti a processo.

3. L’EREDITA’ DA ACCETTARE
Ma il processo di Norimberga, certamente censurabile da un punto di vista giuridico, era forse il meglio che la comunità internazionale in quel dato momento storico potesse esprimere.
Oggi, dopo 60 anni, qualcosa è cambiato, soprattutto con riferimento ai principi del giusto processo, che trovano piena affermazione nello Statuto della Corte Penale Internazionale (ma solo per gli Stati che vi hanno aderito)[20]. Questo non intacca, tuttavia, l’importanza dell’esperienza di Norimberga, la cui vera eredità giuridica è legata alla trasmissione di alcuni principi importanti: tra questi, quello che l’ordine superiore non libera dalla responsabilità penale e, soprattutto, quello della legittimazione della giurisdizione penale universale.

a. L’ordine superiore e la responsabilità penale
In base a quanto affermato dai giudici di Norimberga, l’ordine superiore non libera da responsabilità penale. Ne consegue che il combattente, quando l’ordine è manifestamente illegittimo, ha il dovere non eseguire l’ordine e ribellarsi ad esso. Il principio, importantissimo, è stato oggi recepito dagli ordinamenti dei tribunali internazionali, ed in particolare dallo Statuto della Corte Penale Internazionale. Ai sensi dell’’art. 33 di tale Statuto, infatti, la circostanza che il crimine di guerra sia avvenuto per esecuzione di un ordine del Governo o del superiore non fa venir meno la responsabilità penale (peraltro, l’ordine di commettere atti di genocidio o crimini contro l’umanità è considerato sempre palesemente illegittimo).

b. La legittimazione della giurisdizione penale universale
Ma il più importante principio, per la prima volta affermato a Norimberga, è quello della legittimazione della giurisdizione penale della comunità internazionale, che si sostanzia attraverso una limitazione del potere statale di fronte a gravi violazioni di valori universali.
Principio che, sia pur attraverso un cammino difficile, ha trovato ospitalità nello Statuto della Corte Penale Internazionale. Come è stato sottolineato da un insigne giurista italiano[21], infatti, "lo Statuto di Roma vuole rappresentare la piena affermazione di un diritto punitivo della Comunità internazionale su tutti gli individui colpevoli dei più gravi crimini contro la pace e la sicurezza del genere umano”.
Lo scopo principale della giurisdizione penale universale, in tal senso, è quello di “ristabilire simbolicamente la norma infranta in nome della collettività”[22], atteso che le norme violate senza alcuna sanzione tendono ad indebolirsi e scomparire dall’ordinamento giuridico, anche nel caso di norme poste a tutela di valori universali.
Senza il seme di Norimberga difficilmente si parlerebbe, oggi, di una giustizia penale universale.

4. L’EREDITÀ IGNORATA
Ma dall’esperienza di Norimberga si potevano trarre altri utili ammaestramenti, non sempre recepiti negli Statuti dei moderni Tribunali internazionali. Il riferimento, in particolare, è al fattore tempo e al fattore luogo, ossia all’importanza che il processo si concluda in tempi ragionevoli e si svolga, laddove le circostanze ambientali lo consentano, sul luogo di commissione dei crimini.

a. Fattore tempo (conclusione del processo in tempi ragionevoli)
Il processo di Norimberga si svolse dal 20 novembre 1945 al 1° ottobre 1946, con una durata complessiva inferiore ad un anno. La conclusione rapida era legata alla convinzione che tempi processuali troppo lunghi avrebbero potuto non assicurare quella giustizia che la comunità internazionale chiedeva invece a gran voce.
Ebbene, questi insegnamenti non sempre sono stati presi in considerazione negli ultimi anni. Ad esempio, l’attività del Tribunale ad hoc per l’ex Jugoslavia si è contraddistinta per una giustizia lenta e macchinosa (in 14 anni di attività, sono state incriminate 161 persone e si sono conclusi processi contro 94 accusati, con un numero limitato di condanne[23]).
Recentemente un gruppo di esperti in diritto internazionale umanitario ha effettuato una ricerca sulla deterrenza della pena[24]. In questa ricerca è emersa l’importanza della rapidità nella sanzione, in quanto non c’è giustizia senza rapidità. In tal senso, ritardare la giustizia è come negare la giustizia. Si conferma così, a distanza di anni, l’importanza del fattore tempo nella conclusione di un processo internazionale per crimini contro il genere umano, il tutto in linea con gli insegnamenti di Norimberga[25].

b. Fattore luogo (svolgimento del processo, ove possibile, sul luogo del crimine)
Norimberga è il luogo ove furono emanate le leggi razziali del 1935. La scelta di Norimberga quale città simbolo del potere nazista e della persecuzione contro gli ebrei non fu pertanto casuale[26].
A distanza di anni, alcuni Tribunali internazionali sono stati istituiti nei Paesi ove i crimini sono stati commessi. E’ il caso, ad esempio, del Tribunale ibrido per la Sierra Leone, con sede a Freetown, che ha ottenuto risultati decisamente confortanti: la gente crede nella giustizia in quanto, nel caso di specie, è più facile acquisire prove testimoniali ed assicurare i colpevoli alla legge.[27]
La stessa esperienza positiva si è registrata anche a Sarajevo con la Camera per i crimini di guerra in Bosnia ed Erzegovina; si tratta di un Tribunale ibrido, in quanto vi è una presenza di due giudici internazionali e di un giudice locale. Lavora con solo il 5% del budget del Tribunale ad hoc per la ex-Jugoslavia ma, dopo poco più di 1 anno di attività, ha già trattato sei casi e tre di essi sono già in appello. Questa Camera è fondamentale nel processo di riconciliazione in atto nel Paese, perché è importante la percezione che la giustizia sia fatta (“Justice must not only be done, but seen to be done”[28]).
Pertanto, quali utili ammaestramenti dall’esperienza di Norimberga in ordine al fattore luogo, si può affermare che la giustizia deve essere non solo fatta, ma anche avvertita dalla popolazione locale (facendo attenzione che la giustizia conseguita sia quanto più possibile aderente alla giustizia che la popolazione locale si attende). Conseguentemente, quando le circostanze ambientali e di sicurezza lo consentano, sarebbe opportuno portare il tribunale sul luogo del crimine[29].

5. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Ritorno sui crimini lesivi di valori universali che, per la prima volta, tra luci e ombre, il Tribunale di Norimberga ha cercato di sanzionare.
I fatti, come visto, hanno dimostrato che il monito dell’umanità di non tollerare mai più le gravissime atrocità poste in essere durante la seconda guerra mondiale è rimasto in parte inascoltato,[30] a causa del ripetersi di crimini di guerra e crimini contro l’umanità senza una reazione forte, decisa e coerente della comunità internazionale.
Dopo e nonostante il processo di Norimberga, la giustizia internazionale non sempre è riuscita ad affermarsi, apparendo selettiva in quanto ai crimini da perseguire e condizionata dagli interessi statali. Anche la Corte Penale Internazionale ancora oggi stenta a decollare, condizionata fortemente dalla mancata ratifica dello Statuto di Roma da parte di molti Stati di importanza strategica nello scacchiere mondiale. Viene così in parte disattesa la speranza di una piena affermazione di un diritto punitivo sovranazionale su tutti gli individui che si sono macchiati dei più gravi crimini contro il genere umano.
Ma il valore etico e giuridico di Norimberga va oltre tutto ciò: grazie a Norimberga, si può oggi dire che, pur in un sistema ancora in evoluzione, la comunità internazionale voglia sempre più affermarsi quale giudice non più tollerante verso chi offende gravemente la coscienza etica e giuridica dei popoli, anche per crimini commessi all’interno del proprio Paese nei confronti della propria gente[31].
Il processo di Norimberga, dunque, pur con le sue tonalità in chiaro e scuro, rappresenta una grande conquista e un’importante tappa verso la civiltà giuridica. Non è infatti importante che, a Norimberga, i principi del giusto processo siano stati sempre pienamente rispettati. Essenziale è stato invece - come affermato sessant’anni fa dal Calamandrei - che “la violazione delle leggi dell’umanità abbia cominciato a trovare un tribunale e una sanzione. Quel che conta è il precedente, che domani varrà come legge per tutti, per i vinti e per i vincitori.”[32] Nella sentenza di Norimberga, pertanto, c’è racchiusa, implicita, la ferma condanna delle più gravi atrocità contro il genere umano e in tal senso deve essere considerata, valorizzata e attualizzata la sua eredità.

[1] A Norimberga si tennero anche altri dodici processi minori, ma il più importante fu il primo, che vide come imputati i ventuno alti gerarchi nazisti superstiti. Il Tribunale di Norimberga fu costituito dalle 4 potenze vincitrici della 2^ guerra mondiale (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Unione Sovietica).
[2] Comandante della Luftwaffe e tra gli artefici del riarmo nazista.
[3] Cfr. Enzo Biagi, La seconda guerra mondiale. Parlano i protagonisti. Il terzo Reich muore in palestra, Rizzoli, Milano, 1989.
[4] Crimini previsti dall’art. 6 dello Statuto del Tribunale di Norimberga.
[5] Cfr. Massimo Nava, L’arma spuntata del giudizio universale, Corriere della Sera, 12 luglio 2002.
[6] Il Tribunale di Tokyo (o Tribunale internazionale per l’estremo oriente) fu istituito il 9 gennaio 1946 per giudicare i crimini contro il genere umano commessi dai giapponesi. Vi facevano parte rappresentanti dell’Australia, del Canada, delle Filippine, della Nuova Zelanda e dell’Olanda. Si concluse nel novembre del 1948.
[7] Tra i principi violati, vi è anche quello del mancato ricorso al giudice naturale precostituito per legge, atteso che il Tribunale di Norimberga è stato istituito post factum.
[8] Cfr. Edoardo Greppi, I crimini di guerra e contro l’umanità nel diritto internazionale, Utet, Torino, 2001, p. 67. L’autore evidenzia che “se è vero che la componente di diritto convenzionale risaliva a pochi decenni prima (Aja 1907, Ginevra 1929), la parte consuetudinaria appariva antica e consolidata”. A conferma di ciò, alcuni Tribunali nazionali, che dopo Norimberga furono chiamati a giudicare su crimini di guerra commessi durante la 2^ guerra mondiale, fecero ampio ricorso al diritto consuetudinario. Ad esempio, la Corte marziale di Bruxelles nel 1950 condannò un Ufficiale tedesco capo dei campi di detenzione in Belgio accusato di gravi sevizie contro i PoWs. La difesa aveva fatto notare come il diritto dell’Aja allora vigente non vietava atti di sevizie e tortura. Tuttavia non si poteva non punire. La Corte applicò la clausola Martens secondo cui “… i civili ed i combattenti rimangono sotto la protezione e l’imperio del diritto delle genti, quali risultano dalle consuetudini stabilite [fra le nazioni civili], dai principi di umanità e dai precetti della pubblica coscienza.”. Tale clausola, che tutela le parti deboli di un conflitto offrendo loro talune garanzie minime, è di origine consuetudinaria (anche se poi ripresa nel tempo in tutte le più importanti Convenzioni). Recentemente, anche il Tribunale ibrido per la Sierra Leone ha giudicato sulla base del diritto internazionale consuetudinario, condannando l’ex Ministro della Difesa (Hinga Norman) al crimine di arruolamento dei bambini minori di 15 anni. La difesa sosteneva che il crimine non era contestabile in base alle leggi internazionali vigenti nel periodo in cui i fatti erano stati commessi. La Corte, con una maggioranza di 3 a 1, ha sostenuto invece che il reato era già previsto dalle consuetudini internazionali.
[9] Il Pubblico Ministero Robert Jackson, nella sua ultima requisitoria, rivolgendosi ai giudici così concluse: “Se voi dite che questi uomini non sono colpevoli, sarebbe come dire che non c’è stata guerra, non c’è stato massacro, non ci sono stati crimini”.
[10] Cfr. Reinhard Merkel, Norimberga e la giustizia degli uomini, 17 novembre 1995, visionabile al sito www.presentepassato.it.
[11] Il patto Briand-Kellogg fu firmato il 27 agosto del 1928 da 15 Stati e successivamente da altri 50. Con esso erano consentite le solo guerre di difesa o di sanzione autorizzate dalla comunità internazionale.
[12] Reinhard Merkel, Norimberga e la giustizia degli uomini, cit.
[13] Sergio Bertelli, Le piccole Dresda d’Italia, Ideazione, luglio-agosto 2005.
[14] Durante i bombardamenti della 2^ guerra mondiale, i rappresentanti delle forze alleate (in particolare Churchill) sostennero che i loro attacchi erano giustificati per rappresaglia (in quei tempi non vietata anche se condotta contro la popolazione civile).
[15] Anche il Tribunale di Tokyo, chiamato in causa sul bombardamento atomico degli alleati, giudicò, non senza imbarazzo, la questione non pertinente.
[16] Cfr. Sergio Dini, Il contributo della giurisprudenza italiana all’evoluzione del diritto umanitario, in Studi di diritto internazionale umanitario di Giuseppe Porro, Giappichelli editore, Torino, 2004; Federico Marzollo, Ancora un approfondimento sul Gen. Bellomo, Vita associativa. L’Autore fa riferimento ad un documentario prodotto dalla BBC nel 1980 relativo al processo farsa contro il Gen. Bellomo, ove sembra che la decisione di condanna a morte fosse già stata presa dallo staff civile inglese prima della costituzione della Corte militare.
[17] In ordine alle presunte responsabilità della NATO durante le operazioni militari nell’ex-Jugoslavia, il Procuratore del Tribunale, Carla Del Ponte, aveva nominato in data 14 maggio 1999 un Comitato di esperti allo scopo di verificare se il materiale probatorio potesse giustificare l’apertura di una istruttoria. Il 2 giugno 2000 il Procuratore ha comunicato al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite la propria decisione di non procedere, accogliendo le conclusioni del rapporto redatto dal Comitato di esperti, con le quali non si riteneva utile che fossero condotte ulteriori investigazioni da parte del Procuratore in quanto la normativa non appariva sufficientemente chiara ed era improbabile che le indagini potessero portare all’acquisizione di materiale probatorio tale da poter sostenere le accuse.
[18] Il Tribunale speciale iracheno è stato istituito, come i Tribunali ad hoc, post factum. La sua procedura non sempre appare ispirata ai principi del giusto processo. Sul punto cfr. Natalino Ronzitti, Esiste una giustizia internazionale in grado di processare i capi di Stato?, visionabile al sito www.affarinternazionali it.
[19] Cfr. Arturo Marcheggiano, “Alcune Proposte”, contributo scritto nell’ambito della XXIX tavola rotonda sui problemi del DIU sul tema ”Giustizia e riconciliazione: un approccio integrato” tenuta dal 7 al 9 settembre 2006 a Sanremo presso l’Istituto internazionale di diritto umanitario.
[20] La Corte Penale Internazionale è stata istituita nel 2002 a seguito dell’entrata in vigore del suo trattato istituzionale del 1998 (raggiungimento 60^ ratifica). Gli Stati che sinora hanno aderito sono 104: tra questi non compaiono Cina, Giappone, Russia, Stati Uniti ed altri importanti Paesi. La Corte ha una giurisdizione complementare, ossia è competente solo qualora lo Stato avente titolo non possa o non voglia giudicare il colpevole. La Corte è rispettosa del principio del giudice naturale precostituito per legge (trattasi di un tribunale permanente) e del principio di irretroattività della norma penale (giudica infatti solo sui fatti commessi successivamente alla sua entrata in vigore).
[21] Giuliano Vassalli, Statuto di Roma. Nota sull’istituzione di una Corte Penale Internazionale, in Rivista di studi politici internazionali, 1991, pag. 10.
[22] Reinhard Merkel, Norimberga e la giustizia degli uomini, cit.
[23] Dati ricavati dal 13° Rapporto annuale del Tribunale per l’ex-Jugoslavia, consultabile in internet sul sito www.un.org/icty.
[24] I risultati della ricerca sono stati presentati a Sanremo presso l’Istituto internazionale di diritto umanitario nell’ambito della XXIX tavola rotonda sui problemi del DIU (6/8 settembre 2006).
[25] Un processo rapido non è tuttavia sempre possibile. Ad esempio nel caso del Tribunale internazionale per il Ruanda, ove il numero dei possibili imputati tra gli Hutu era talmente elevato che non consentiva una chiusura rapida del processo.
[26] Sulla scelta incisero anche motivazioni logistiche. Infatti Norimberga offriva un Palazzo di giustizia ancora intatto e un carcere posto nelle immediate vicinanze.
[27] Intervento del Prof. David Crane, già Procuratore Capo del Tribunale per la Sierra Leone, tenuto a Sanremo presso l’Istituto internazionale di diritto umanitario nell’ambito della XXIX tavola rotonda sui problemi del DIU in data 8 settembre 2006.
[28] Intervento del Giudice Almiro Rodriguez, della Camera per i crimini di guerra in Bosnia ed Erzegovina, tenuto a Sanremo presso l’Istituto internazionale di diritto umanitario nell’ambito della XXIX tavola rotonda sui problemi del DIU in data 8 settembre 2006.
[29] L’osservazione è valida per i tribunali internazionali, nei cui Statuti non è prevista la comminazione della pena di morte. Ne deriva l’inopportunità di processare un criminale sul luogo del crimine dinanzi a tribunali nazionali, qualora l’ordinamento locale preveda la sanzione della pena di morte (come nel caso del Tribunale speciale iracheno).
[30] In tal senso continua purtroppo a mantenere una sua attualità, nonostante le conquiste giuridiche dell’umanità, il vecchio brocardo latino “Inter arma silent leges”, poi ripreso nel 1999 dal giudice della Corte Suprema USA William Renqwist con la formulazione “The laws are not silent in war time. They speak with a muted voice”.
[31] La giustizia penale, perché abbia un senso compiuto, deve tuttavia essere accompagnata da un processo di riconciliazione nazionale. E’il caso dell’Africa del Sud, ove vi è stato un processo di riconciliazione riuscito, attraverso la rinuncia a perseguire taluni crimini (per evitare di umiliare il perdente), ma senza cadere mai nella trappola dell’impunità.
[32] Piero Calamandrei, Le leggi di Antigone, Il Ponte, novembre 1946, visionabile al sito www.presentepassato.it.

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